sabato 29 dicembre 2007

L'homo faber

Marcello Veneziani avrà sicuramente annusato l'aria di decomposizione che pervade il centrodestra. Altrimenti come si spiega il pezzo pubblicato su Libero (l'organo di destra più malinconicamente spassionato nel servire il suo capatàz) avente quasi un carattere di necrologio, di carme in morte di Silvio Berlusconi. Sproloquia il nuovo Papini (solo per l'acconciatura spericolata, però): lo ricorderemo non come un politico, quello che galvanizzò e rese selvatico il ceto medio-alto, ma come l'homo faber creatore di partiti, movimenti, iniziative e manifestazioni di massa nella migliore tradizione populista. L'alchimista munito di prscienza e poteri arcani che resuscitò e legalizzò la destra estrema italiota, ripescandola e riverniciandola, rendendo praticamente nuovo un pezzo d'antiquariato che saliva agli onori della cronaca solamente per avanzare modeste proposte di antico sapore, folcloriche, come la reintroduzione della pena di morte contro il brigatismo. L'uomo che se ne fotte delle regole democratiche e dei formalismi proprio perchè è vicino col cuore - più che col portafoglio - al cittadino italiano per eccellenza: strafottente, devoto liberale nella sua ribalderia, volpone e maramaldo, misoneista e molto ma molto fascista, eternamente fascista, impregnato dal mito dell'impero romano fecondatore della kultur, svalutata poi nella modesta civilization anglosassone. Ricorda Massimo Teodori, altro poeta al capezzale del genio moribondo, che l'Italia è stato da tempi immemorabili un paese conservatore e volendo esagerare pure mezzo fascista, golpista, insofferente a regole democratiche, vitale e generoso ma pronto a trasformarsi belva sprezzante della "sensibilità democratica" comunista o radical chic, suscettibile di scelte severe atte a mantenere lo status quo. Per un liberale come si autodefinisce, forse con troppo amor proprio, Teodori, non è niente male la scoperta a sessant'anni suonati dell'umore sostanzialmente fascista covato dal proprio paese. Io vorrei ricordare l'altro Teodori, quello che coi suoi ex compagni radicali faceva il movimentista e l'attivista per i referendum su divorzio e aborto per "modernizzare il paese", metterlo al passo con le nazioni civili e guai a chi si volta: anche se i zuavi pontifici sono una maggioranza, silente, indietro non si torna. Il Teodori scandalizzato che intimava le dimissioni allo stato maggiore democristiano colluso colla P2 esalta un ex piduista perchè capace di introiettare e rappresentare i bisogni del "paese reale". Complimenti, dottor Teodori. Complimenti davvero. Possiamo consolarci pensando che in definitiva si tratta di un commiat, di un addio al passato verdiano a cui è totalmente preclusa la luce radiosa del futuro. Ognuno prega ed esalta i propri santi, per carità, ma esaminando i trascorsi di qualche devoto e confrontandolo con la specie di santo a cui si rivolge, viene un pò di rabbia e sorge pure una leggera sensazione di nausea foriera di conati di vomito.

L'Italia disperata di Vespa e i ricordi dell'elefantino

Quando sfoglio Panorama ho modo di scorgere sempre uno o due articoli che prima mi fanno accapponare la pelle, poi mi invitano a ridere e da ultimo mi lasciano nella più consistente delle perplessità.
Pezzi del genere, in grado di darti più emozioni degli stupefacenti o degli alcolici, portano solitamente la firma di Bruno Vespa e dell'elefantino, raramente di quell'altro soggetto da neurodeliri, l'ottimo Guzzanti senior. Il giornalista due ruote spiegava, presumibilmente bagnando di lacrime il foglio ... pardon, la tastiera del computer, spiegava insomma come sia diventato facile per i Giovani d'oggi (categoria dello spirito
ormai stracca dunque degna di maiuscola) procurarsi cocaina, eroina e altre droghe. Lui, all'uopo, dopo il delitto di Meredith Kercher, la studentessa inglese assassinata a Perugia, ha sguinzagliato proprio nella bella e serena città umbra una segugia di Porta porta, con l'evidente finalità di comprovare il clima decadente e la rilassatezza di costumi che regnano in loco. Inviate 007, plastici della casa degli orrori, happening e non parliamo di quando si mette a fare la cavia, bevendo vino per sottoporsi poi alla prova del palloncino: che fenomeno, che professionista! Il titolo del pezzo, me l'ero quasi scordato, recitava "Perugia, spaccato d'Italia". L'intenzione è di fare di tutta l'erba un fascio, malvezzo che oggi non ha più senso rimproverare ai media, tanto tracimante e nauseabondo è l'uso che ne fanno. Vespa segue il canovaccio di un moralismo diffuso presso la middle class che magari in edicola compra soprattutto Panorama e in Tv guarda specialmente quel talk show imbarazzante nella seconda serata di Rai1. Ma lasciamo perdere, altrimenti mi impantano nella solita stroncatura anti Tv. Dunque, questa impavida inviata portaportesca dimostrava come la coca pullula, arrivando a dare dei punti persino al commercio al dettaglio di frutta e verdura, e come gli esercenti di tali traffici loschi si piazzino nei luoghi strategici e affollati, tipo le pubbliche piazze, le entrate di edifici comunali o ecclesiastici, nelle scuole e nelle università. Diciamolo: una Sodoma e Gomorra a cielo aperto e a circuito chiuso. La forza pubblica con il suo knut rappresentato dalla legge stanno a guardare, come scrive sull'Espresso il Walker Texas Ranger Giampaolo Pansa, in vena di tolleranza zero e di ammiccante ironia alla difesa bricolage fai-da-te. Tornando dal milionario gazzettiere a due ruote, c'è da dire per concludere, che l'articolo chiosa con una intensa paternale sui bei tempi andati, quando le adolescenti vestivano grembiuoloni monacali, arrossivano e per diventare ragazze madri avevano la buona educazione e la pazienza di aspettare almeno i diciotto anni. I ragazzi vestivano alla marinara fino ai tredici anni di età, coi bravi calzoni corti e il berretto alla Gianburrasca. Allora perchè la Rai non fa un repulisti di vedette, praticamente una retata antimignotte, reintroducendo la mitica donna Letizia, maestra di educandato?
Meglio tacere e andare alla categoria "ricordo cose che voi umani non potete neanche immaginare".
L'elefantino sposato con la giraffa Dall'Olio ricorda per l'appunto i favolosi anni settanta, quelli di piombo e dei porci volanti con le P38 e le stragi di stato. Lui c'era in quel maledetto decennio politicamente rossonero (non ancora nel senso di Berlusconi) nella violenza screanzata di ideologie miserabili, soprattutto la rossa (non ancora nel senso di M.V. Brambilla), che si voleva liberatrice e romantica e pura come la lavanda, anche se gli toccò avere tra le sue fila solo una Faranda. Violenza e insoddisfazione nichilistica tradottesi in realtà dopo che molti troppi intellettuale gauchisti, qualcuno anche in buona fede - "come l'usignolo della chiesa cattolica Pasolini" il quale, aggiungo io, farà una bruttissima fine, sic! -, avevano sparso inchiostro sporco fomentando una generazione, la prima, nata all'insegna del welfare e di un relativo benessere. Le vittime di quella generazione, al di là dei Moro, dei Calabresi, degli agenti di scorta e di tutti i gambizzati, furono anche quei giovani che, come Adriano Sofri, da quell'onda anomala di furore si lasciarono sopraffare.
Perfetto. L'elefantino dimentica Valle Giulia ma forse la memoria ha fatto cilecca; strano perchè lui c'era a picchiare i poliziotti, "lui centra", come recita il motto dell'Udc. Ovvio che l'amarcord elefantiaco chiuda la parabola accomunando i violenti di allora coi Black block, i no Global e il popolo di Seattle di oggi.
Ho gia scritto di questa generazione perduta che vede nei ragazzi del presente i vizi oscuri del loro passato.
Posso solo citare Massimo Fini, che con parole memorabili e coraggiose condanna la classe del sessantotto, delle leve irresponsabili, buone a nulla, ricattatori e cinici, assassini nei fatti e nelle parole, assidui fedeli del millenarismo: ieri comunista e di sinistra; oggi americano e di destra. Nonostante facciano la parte degli scandalizzati, dei benpensanti interessati a conservare l'ordine pubblico, dei personaggi dostoevskiani che hanno saldato i debiti col prossimo e chiuso col passato (a differenza, sostengono, di altra meglio gioventù come Gino Strada, Toni Negri, Mario Capanna ecc.), nonostante tutto, questa marmaglia rimane identica a se stessa a distanza di trent'anni. Hanno solo cambiato collocazione.

Il mondo nuovo

Il casino e i Casini soprafFini delle ultime settimane che stanno letteralmente mandando in tilt sondaggisti e politologi hanno una spiegazione cartesiana. Ce la fornisce, bontà sua, un'acuto opinionista del Foglio anonimo (cioè sanza firma, come un noto umanista si autodefiniva con modestia uomo "sanza lettere"). L'epicentro, la causa di questo sommovimento tellurico è semplicemente l'exploit della "tendenza Veronica", vale a dire il berlusconismo di sinistra o il berlusconismo moderato e sennato inaugurato dall'elefante (senza, anzi sanza diminutivo). L'articolo, che puzzava di palombellismo, si reggeva tutto sul ritratto di Luigi, il cadetto di casa Berlusconi, la vera famiglia moderna e di sinistra: allargata, zeppa di separazioni, figli di prime e seconde nozze ma soprattutto di curiosità liberale, di metodi educativi alternativi e progressivi.
Partendo dal giovin signore, che dichiara di avere molti amici di sinistra (riformisti ovviamente, perchè quelli della sinistra radicale sono dei cani anche come amici), di leggere Alberto Moravia (che non sapeva scrivere, secondo l'autorevole elzeviro del suddetto giornale, Camillo Langone), di divertirsi con Roberto Benigni e di appassionarsi parecchio alle battaglie di Beppe Grillo, icona dei giovani padroni del proprio destino. Certo, il futuro sarà tutto in finanza, come un borghese si cucciolo, si aperto e illuminato ma destinato presto o tardi a bere l'amaro calice e andare a "lauràa". Fin qui grazioso e gradevole siparietto semiserio a cui, come di norma, succede il secondo tempo disastroso, una costante in certe articolesse del Foglio.
Lo scrivente strizza l'occhio a Walter col tono di rimbrotto affettuoso intimandogli di procurare il prima possibile amici di destra alle figliole (e considerando anche la grana dell'età da marito perchè non maritarle col bravo Luigi junior?), di lasciar stare le fregnacce cinematografare, campodeiFioriane, di recidere il cordone ombelicale incancrenito che lo lega al morettismo capitolino, segnacolo di assoluto sfigatismo e di smorto poveraccismo. Insomma gli suggerisce di berlusconizzare un pò anche la famiglia dopo aver berlusconizzato il partito e il proprio background, di seppellire le asce da guerra, di firmare un bell'armistizio e brindare a tarallucci e vino con le rispettive tribù, di Arcore e de Roma. 'A livella di Totò potrebbe essere l'oggetto archetipico per suggellare il nostro allegro avviarci verso la morte della democrazia e di tante altre belle cose per cui valeva la pena vivere e lottare. Un tempo, forse; oggi non più. La nuova bicamerale stavolta non farà davvero prigionieri. Omologherà quel poco di differenze rimaste, pareggerà quei salienti residui e antipatici alla tendenza Veronica, che è poi la tendenza Ferrara, la tendenza Polito, Ostellino, Velardi, Palombelli, Costanzo, Vespa ... L'inciucio mette in mezzo pure le famiglie, il privato, auspica il frequentare l'altra sponda come se in questi anni in Italia si fosse avuta una guerra civile dove era proibito parlare col nemico.
Ma sappiamo fin troppo bene chi ha avveleneto ad arte il clima e chi ha eretto barricate e giocato sporco, chi fingeva la guerra totale mentre poi sottobanco si spartiva poltrone e poteri.
La guerra c'è stata e si è combattuta in alto perchè i cittadini sono più maturi e meno smaliziati dei politici, frequentano chi gli pare e piace senza badare al colore politico. Per quanto mi riguarda non ho niente contro il biondo rampollo di Silvio Berlusconi, essendo chiaro che l'intento di quel pezzo di basso giornalismo era quello di far nascere rimorsi presso gli antiberlusconiani irriducibili, di stimolare un'incontro possibile, di additare un domani migliore a catarsi avvenuta, mano nella mano tutti insieme appassionatamente. Francamente preferisco continuare a essere uno sfigato nè di sinistra nè di destra - vista oramai la pacificazione - di leggere anticaglia inutile, di coltivare un pensiero negativo e nichilista stillante odio, di pensare male della gente e sparare cazzate consolatorie, di guardare film sfigati che nessuno guarda e che piacciono a pochi. Preferisco restare fuori dalle porte di Veltroni land, di non accodarmi al buffet. Spero di farcela, che sarà mai? Se qualcuno è riuscito a restar fuori dalle porte del paradiso ...

Se i popoli si emancipano ...

Il referendum cesarista di Ugo Chàvez, coi suoi quesiti finalizzati a legalizzare le riforme socialiste e a istituzionalizzare il mega mandato presidenziale con scadenza nel 2021, è stato respinto. Persino i liberaldemocratici marziani tirano un sospiro di sollievo mentre la sinistra radicale (come mi piace! mai definizione fù più azzeccata) ci va coi piedi di piombo nell'analizzare la bocciatura, concludendo che alla fin fine si tratta di una vittoria fondamentale per conferire credibilità al "socialismo del XXI secolo". Una sconfitta di Pirro, cioè una sconfitta che il tempo, da galantuomo qual'è, convertirà un domani in vittoria o in speranza concreta di vittoria perchè lo ripetiamo, spazza via un bel pò di avvoltoi e uccellacci del malaugurio.
Gli importuni dicevano con la sicumera propria degli ipocriti: Chàvez è un caudillo, un leader (fuori tempo) maximo, un ostacolo per lo sviluppo e la modernizzazione dell'America Latina. Nonostante tutto in quel paese non si registrano, per esempio, situazioni di conculcata democrazia, non sussistono le prove di un dilagante terrore giacobino e rosso tradottosi in leggi speciali che ledono l'habeas corpus e nemmeno un partito unico. Per fortuna lì esiste e opera, in perfetta armonia e salute, una tenace opposizione dotata di una Tv per portare avanti le proprie battaglie e professare il proprio credo. Esiste anche, una volta disinnescato lo strambo esperimento bolivariano, una data di scadenza al mandato presidenziale di Chàvez, il quale, dulcis in fundo, ha vinto democraticamente le precedenti tornate elettorali attuando il suo programma di nazionalizzazioni e di infecondo assistenzialismo. Da biasimare quanto si vuole, ma da rispettare in quanto espressione della volontà di una maggioranza. E allora come mai i nostri eroi blaterano di dittatura, di secondo - tragico - castrismo? Come mai la buttano in politica estera trasecolando a un presunto patto d'acciaio tra Venezuela e Iran? L'Iran, il diavolo cornuto del Ronzinante occidente e del suo cavaliere dalla strana figura Usa? Per un motivo semplicissimo. Vogliono impedire l'autodeterminazione dei popoli in via di sviluppo negandogli una terza via, un altro sentiero che non sia il libero mercato e la globalizzazione (oppure il diretto servaggio agli Stai Uniti) che, sia detto per inciso, in quel continente ha portato miseria e disperazione parimenti al socialismo reale cubano, se non di più. Il famigerato e tacito precetto della Dottrina di Monroe che faceva del sud America "il giardino di casa". Discorsi da Gianni Minà, da rivoluzionario in pensione si dirà. E però questa, una ipotesi a cui sono giunto dopo un'intensa riflessione non priva di dubbi e difficoltà. Mi spiego meglio: il piccolo Cesare Ugo dopo quasi due lustri in cui si è costruito a suon di prebende e sussidi, frutto di una non eterna bonanza petrolifera, una solida base elettorale costituita da desperados, un pò come nell'antica Roma le donazione di grano agli indigenti offerte dai ricchi senatori avidi di consensi. A questa innocente filantropia succede il secondo momento del piano: la legittimazione su carta costituzionale di tale politica. Allora si indice un referendum allo scopo di protrarre il suo mandato per poco più di un decennio, e non nei secoli dei secoli (come ha opinato qualche imbecille interessato). Questo rimettersi alla volontà popolare è già di per sè una mossa degna di fiducia e di rispetto. Ancor più quando la consultazione viene persa onorevolmente e si accetta il responso delle urne, facendo - come presumo - un passo indietro. In breve, Chàvez ha perso la sfida a livello personale vincendola, però, a livello ideale, con l'acquisita credibilità che in passato gli mancava a causa dei colpi di testa e del suo istrionismo personalistico. L'esercizio di democrazia andato male consegna le chiavi del futuro a questo curioso socialismo del 2000, un esperimento riuscitò solo a metà, candidato al ruolo di antidoto o di alternativa alla globalizzazione neocapitalistica.

Oriana Fallaci o della confusione

"La rabbia e l'orgoglio" è un testo capitale per capire dove può arrivare la contraddittorietà umana. La compianta giornalista dava la stura a un comprensibile e incendiario sfogo contro una cultura assassina e barbara. Ma le idee spesso erano ammucchiate alla rinfusa, il concetto poco tenace, le motivazioni a senso unico e le conclusioni sballate. Ecco un sunto della babele argomentativa esposta in quel predicozzo scritto benissimo.
L'america è la nazione più generosa e libera e coraggiosa del mondo però sbaglia a fare il bambascione impelagato dalle pastoie; il comunismo fa schifo ma Lenin in fondo era laico e nel 1979 in Afghanistan l'armat rossa andava sostenuta (quindi americani creduloni, bambascioni e perchè no? coglioni);
le teocrazie sono da evitare però quant'era bono il Dalai Lama Kondun quando faceva il cascamorto con la T-shirt di Popeye! Il passato e da salvaguardare in virtù della tangibilità lasciataci: quante sono elle le moschee, le chiese e i Buddha demoliti dai taliban! Però ... e beh però l'Islam è una merda, e cristianesimo e buddhismo rimangono teocrazie. Vogliamo parlare degli arabi nei loro tratti ontologici? Poveretti, squartati e decollati, maschi e femmine, per mere questioni di moda. Stupidi! Ben gli sta! Perchè non si ribellano e fanno una bella rivoluzione culturale? Alla Mao Zedong, intendo, che come diceva Kondun con la T-shirt, era assai intelligente e dalla sua bocca non usciva mai una sciocchezza? Ma, si sa ... Mao e Dalai, totalitarismo e teocrazia, due nomi un briccone. Poverine le donne arabe a cui è proibito ridere e imbellettarsi ... le nostre femministe radical chic stanno a guardare?! Ma si! Hanno ragione: a ciascuno il suo cielo, il mondo è bello perchè è vario. No, no, no! E che? vogliamo comportarci da egoisti e negare alle sorelle afghane libertà e giustizie e civiltà, voltarci dall'altra parte come quelle criptomaschiliste delle femministe nostrane? Che si fa? Li invitiamo a casa nostra e offriamo loro libertà e buone occasioni lavorative? Sacrilegio! Bisogna sigillarli tutti quanti in un unico pacco postale e rispedirli al mittente, tiè! Perchè i figli di Allah voglioni conquistarci e piegarci alla loro cultura inferiore! Non vogliamo mica cambiare la cupola con la Mecca, La divina commedia con le Mille e una notte, Galileo con Omar Khayyam?!

Siamo tutti laici

Perchè una moratoria dell'aborto sarebbe più rivoluzionaria di quella sulla pena capitale? Perchè mettere a morte un uomo adulto che ha violato le leggi della comunità è tollerabile mentre mettere a morte un feto o un embrione sarebbe inconcepibile. Fermare l'aborto dichiarandolo fuorilegge? Legittimo, ma come? arrestando le donne che scelgono di interrompere la gravidanza ed eventualmente chi le aiuta? Tutte cose comprensibili e forse di buon senso. Ma il problema è sempre lo stesso. Cancelliamo l'aborto solo in Italia. Al solito, chi ha i soldi andrà ad abortire in Francia o in Spagna, magari si tratterà delle mogli o delle figlie dei gran maestri d'etica; chi è sprovvisto di liquidi se la prende in saccoccia. Perchè non occuparci di un'altra strage silenziosa e segreta, su cui nessuno riflette nè tantomeno perde il sonno (e il senno)? La falce della fame e dell'Aids che miete milioni di vite umane, incoraggiata dalla chiesa coi suoi criminali appelli che sollecitano la natalità col "crescete e moltiplicatevi" senza scordare di non usare le dovute precauzioni?
Infine, giudico la tolleranza verso la pena di morte, il concedere licenza d'uccidere allo stato (trasgredendo il sesto comandamento), il più abominevole e secolarista e illiberale pensiero udito negli ultimi decenni.

Cosa vuole veramente il Pontefice?

Il regno di Dio in terra è una pia illusione perchè nell'aldilà e solo nell'aldilà vi sarà la reificazione del mondo perfetto e pacificato. L'umanità deve avere pazienza, dovrà aspettare la fine dei tempi affinchè abbia inizio la pacchia. Prospettiva escatologica all'insegna della rassegnazione? Può darsi. La vita terrena d'altronde è poca cosa e non ci riserva nemmeno la soddisfazione di farsi raddrizzare qualcuna delle sue mille storture. Meglio aspettare e dimenticare lanciandoci nel gran carnevale dell'esistenza privata e pubblica con in faccia una maschera grottesca e in cuore un grande amore per Dio e tutti i santi. Tranquilli che funziona! Se ci ficchiamo in testa di cambiare questo mondo le cose poi si mettono male e non ne vale francamente la pena. Un giorno riscuoteremo la nostra agognata paga; sarà lauta e soddisfacente e la spenderemo alla prima trattoria del paradiso che incontreremo, con i nostri amici e i nostri cari ritrovati. Vedrai che bella rimpatriata! Ahimè, bisogna avere molta pazienza per sopportare l'attesa lunga, irta di difficoltà e sacrifici, di soperchierie e guai, di meschinità e amarezze. Tanto per non annoiarci con la grama vita che meniamo quaggiù, facciamo un bel gioco. Riscopriamo l'illuminismo. Si, quello antirelativista di Voltaire e Condorcet e Rousseau, quello pronto a morire per la libertà d'opinione e a portare la (vera) civiltà - l'occidentale - in ogni anfratto del mondo, ai popoli rimasti indietro nell'indigenza e nella superstizione. Ci baloccheremo con questo gioco, un tempo noto come assolutismo e colonialismo (altro che illuminismo), come un antipasto capace di alleviare la gran fame, in vista del buffet ultramondano.

Chi si ferma è perduto!

Ospitata da Pippo Baudo per Luca Cordero. Se il cavaliere aveva scelto con circospezione volpina i luoghi deputati alla discesa e ridiscesa in campo, rispettivamente gli schermi della sua Tv privata e il predellino di un'auto, al nostro secondo tragico uomo forte è spettato uno spazio risibile in termini di autorevolezza pubblica. Decisamente meglio i palcoscenici confindustriali. L'occasione però fa l'uomo ricco e fortunato. Adesso vi spiego il perchè. La maratona Telethon per la ricerca sul cancro si avviava verso la conclusione quando è apparso il Cordero, in abiti casual e sciarpa verde Telethon, che da più giorni è il distintivo del buonismo catodico a cui non ha saputo sottrarsi neanche un cattivone come Marco Travaglio, giornalista dalla penna avvelenata ma troppo propenso a svendersi ai Talk show più abbietti. Dicevamo, la comparsata del numero uno di Confindustria a Domenica in, programma di punta della rete ammiraglia di viale Mazzini, non prometteva niente di positivo e di buono. Il Pippo nazionalpopolare addirittura si è esibito in un improvvisato panegirico in gloria dell'ospite: "Veramente, non riesco a trovare errori nella tua sfolgorante carriera". Peana fuori luoghi impregnato di untuosa ipocrisia, visto che di note stonate la carriera di questo boiardo è stracolma (e poco dopo lo ha riconosciuto lo stesso interessato), come di fallimenti clamorosi e di piccinerie segrete da teatro checoviano. Val la pena rammentarle? Ma si, ricordiamole tutte di un fiato: mazzette in cambio di promesse di raccomandazioni presso l'Avvocato (con la A maiuscola); Mondiali di calcio 1990 o come li definisce la vulgata "Italia 90", sfigatissimi per i colori azzurri e costellati da scandali piccoli e grandi; Juventus stagione 1990/1991 ecc. Voi direte ma non sta bene ricordare solo i tracolli nella carriera di un manager a torto o a ragione vincente. Pienamente d'accordo, ma non è neppure onesto soffermarsi esclusivamente sulle pagine belle e gloriose del tuo curriculum vitae, senza un minimo di modestia e di decoro. A parte la piaggeria che sembra ormai entrata a far parte dell'abc di questa nuova specie di intrattenitore-giornalista, sulla cui deontologia faccio le mie riserve, il signor Cordero raccontava storielle palesemente risapute, suonava uno spartito orecchiato con il malgarbo nervoso del principiante. Ricordava l'ottimismo berlusconiano rivisto e corretto dal veltronismo, una mistura imbevibile e repellente, da cui è cosa buona e giusta tenersi a distanza di sicurezza. Il nostro imprenditore fattosi grande e magnifico coi soldi statali, partecipazioni e sgravi e prebende varie, incitava gli italiani a sfoderare il loro gran cuore e la loro proverbiale generosità perchè - sostiene il brav'uomo - la maggioranaza se la passa bene, per questo deve farsi carico di raddrizzare le storture e di aiutare gli indigenti e gli infelici. Gaffe clamorosa, acuita e resa impopolare dal risentito e altezzoso commento - an passant - alla recente analisi del New York Times che vede un'Italia melanconica e alla canna del gas, dove la vita non è più dolce. Aiutato da Baudo, Luca smonta la tesi del fogliaccio antiitaliano salvo poi asserire che l'America è il grande paese da cui l'Italia dovrebbe andare a scuola imparando, nella prima lezione magari, come si fa a impedire che fior di milioni di euro vadano a impinguare le tasche del capitalismo straccione trainato dal nostro esimio Cordero di. Il tempo restante Luca lo impiega profondendosi in un confuso e banale amarcord dei bei tempi andati, il paese povero ma bello degli anni 50, delle mille lire al mese e delle scampagnate in vespa, senza tuttavia mai arrivare a dire che si stava meglio quando si stava peggio, anzi escludendolo proprio; a farci sapere che lui ha incorniciata nel suo ufficio una laurea con lode e relativo master negli States; a informarci che detesta i giovani perbene nemici dell'alta velocità (lui per le quattro ruote ha una passione quasi futurista) e infine che al pari del suo predecessore sa cantare, visto il modo con cui si è lanciato nella loffia e stonatissima cover di Sapore di sale. Tradizionalista e ardito futurista, cabarettista e ottimista, ecco l'uomo che insieme a Veltroni mira a defenestrare Berlusconi. C'è la farà? Comunque vada, sarà un successo.

Invettiva contro la famiglia

La repubblica italiana nata dalle ceneri incandescenti del fascismo è fondata sul lavoro ma ogni si piangono migliaia di morti sul (di!) lavoro. Prima contraddizione in termini. La repubblica italiana è fondata anche sulla famiglia, cellula dello stato imperniato sul sudore, ma le politiche indirizzate a questo fondamentale nucleo sono tra le più penose e inconsistenti d'europa. E non è finita qui perchè non ho ancora nemmeno cominciato la mia requisitoria. La famiglia, almeno quella di ceppo italiota, è tutto fuorchè il presepe zuccheroso e strappacore dipinto dai multiformi esegeti di questa subdola istituzione. Parafrasando scherzosamente il primo articolo della nostra carta costituzionale, potremmo dichiarare che la famiglia italiana è fondato sulla maldicenza, il rancore, l'ipocrisia e il calcolo, una istituzione impregnata di machiavellico senso della realtà dove tutti gli elementi costitutivi di un clan veramente basato sul sentimento affettivo e il sangue vengono svalutati. Svalutati dalla logica dell'individualismo e dei suoi tristi derivati, il culto dell'immagine e l'arte del mercimonio, del ridurre ogni cosa a oggetto vendibile/acquistabile. La famiglia italiana, o forse quella occidentale in toto, è rovinata dal materialismo. Gli attori di questa congregazione recitano una ingrata e talvolta istrionica parte fatta di cinismi, rapacità, amoralità, umori biliosi, violenza scriteriatae cieca sia verbale che fisica. Il suocero detesta il genero perchè volubile e precario mentre la suocera vede nella nuora ogni sorta di male e peccato mortale, la malagrazia, la pigrizia, la fatua incontinenza.
I cognati in questa torva giostra mica se la passano meglio, anzi pagano spesso prezzi salati semplicemente per via del loro buon cuore o della candida ingenuità, perchè impreparati ai mille sotterfugi e logorati da anni di guerra fredda combattuta a schizzi di veleno e bile. Le feste principali - Natale Capodanno e Pasqua - riuniscono i membri della famiglia sparsi un pò dappertutto mettono nei cuori felicità e letizia e speranza in vista di un caloroso e sereno ricongiungimento. Macchè! Giorni d'inferno segreto, dove tutti sono tesi e insoddisfatti, dove anche i piccolini reclamano la loro fetta di veleno e si lasciano marcire nella palude di accidia e di risentimento che pervade ogni fibra del corpo. Il pretesto per sparlare male di persone e cose è abbastanza facile e sempre a portata di mano: una pietanza non cucinata come Dio comanda oppure un regalo meno appetibile di altri o ancora la roulette della rigovernatura per citare i casi dove prevale la materia; un saluto poco caloroso, una mutria silenziosa, un gesto sgarbato o un sorriso malinterpretato per quanto riguarda invece i rapporti umani. Qualunque di questi motivi, ma ve ne sono tanti altri da riempire una lista leporelliana, può essere addotto per scatenare il caos, la guerra calda e fredda che distrugge ogni sentimento spontaneo ammazzando fegato e cuore. La famiglia e il matrimonio perni della società? Meglio, molto meglio restare scapolo.

sabato 29 settembre 2007

L'alunno professore

Retequattro: si consuma la tragedia di Roberto Gervaso, un tempo divulgatore storico di grido assieme a Indro Montanelli ( i primi volumi della Storia d'Italia) relegato da Mediaset in un cantuccio. L'uomo col papillon risponde a lettere piene di curiosità in un clima surreale, da incubo catodico.


Molti dei detrattori di Roberto Gervaso diranno: ecco dove conduce l'umana ambizione, che nella fattispecie, cioè nel caso del nostro oggetto di studio, consiste nell'aver seguito Silvio Berlusconi.
Ma quella di Gervaso la si può chiamare in mille modi fuorchè ambizione. E l'istinto vitale del pensionato consapevole della propria inutilità che lascia un poco andare la briglia del rispetto per se stesso, che smette l'abito della dignità per ossequiare il novello potente e indulgere ogni suo capriccio. Si è abbassato a molte cose, anche fastidiose e meschine, il nostro Gervaso, come quella volta che nella rassegna stampa del Tg4, in qualità di ospite, bastonò retoricamente l'ultimo Benigni richiamandolo al ruolo di garbato giullare. Certo ha sempre avuto opinioni personalissime, controcorrenti e di certo coraggiose, ma col tempo che tira e gli habitat che frequente uno strappo al decoro, come dicevamo, deve pur sempre farlo.
Negli ultimi anni scodella molti libri inutili e ricercati, di marca culturale rondista e di stile pomposamente D'Annunziano, dove propina interviste sciccose fatte alle svariate celebrità del globo terracqueo. Traccia i profili di questi notabili dello sport, della cultura, della politica e dello spettacolo con lapidarie metafore e arditi aforismi, l'altra sua passione che lo conduce ad arrovellarsi i cervello al fine di sfornarne sempre di nuovi, uno più scombinato dell'altro.
La piccola consolazione senile è rappresentata da un presente offertogli dal presidente Berlusconi, che non dimentica mai di omaggiare, il microprogramma “Peste e corna e goccie di storia”, in onda su Retequattro in una fascia oraria a dir poco proibitiva tagliata su misura per i metronotte desiderosi di abbeverarsi alle sacre fonti dello scibile. Del resto Gervaso ha sempre ricordato che i suoi libri li scrive in modo semplice appunto per renderli accessibili alla maggioranza dei lettori, lattai, portinai, commesse ecc., lui stesso nasce lattaio riclatore di bottiglie usate.

Povero signor Gervaso! La sua opera di padre scolopio risulterà vana nell'epoca del precariato e dei salumieri laureati, i quali rinfacceranno al nostro sventurato père Goriot della penna la pubblicazione di libri risibili, oltraggiosi verso la loro somma preparazione di schiavi moderni colti. Ma evitiamo di lasciarci cogliere dal grillismo. Torniamo a bomba, come direbbe il nostro amico Gervaso, torniamo a Peste e corna che avrete la bontà di seguire in una forbice oraria sospesa tra le sei/sei e mezzo di mattina. Il motivetto di Gershwin accompagna gli effimeri titoli di testa e di coda mentre in mezzo risiede la preziosa farcitura costituita da Gervaso in persona, ripreso in quello che con tutta probabilità è il suo studio, fornito una capace libreria.
Il giornalista scrittore improvvisatosi conduttore esordisce annunciando l'argomento suggeritogli dalla lettera di uno spettatore (c'è ne sempre uno anche se gli ascolti smentiscono) e attacca.
La disquisizione gervasiana è, con tutto il rispetto per questo squisito dandy d'antan, imbarazzante.
Il papillon gli dona un contegno ma la voce gracchiante, la prosopopea (non priva di una sana autoironia) e le cadute di stile contribuiscono e parodizzare il tutto. Desta sospetti pure la maniera di esporre i fatti, giacchè i nervosi scatti con la testa e un palese armeggiare con le mani svelano il galeotto foglio di appunti con la quale lo scolaretto Gervaso gabba ogni maledetto risveglio degli italiani: lo stropiccia, lo sbircia facendo goffamente finta di meditare; si arrampica sugli specchi quando si trova a dover improvvisare la frase, lanciandosi in audaci quanto patetici voli pindarici della frase fatta (eroico Garibaldi, ieratico De Gasperi, eburnea Poppea, scellerato Nerone, pazzo criminale Hitler, muuuh fa la mucca e chicchirichì il gallo ...).
E poi magari mendica pure il sei politico al professor pubblico per raffazzonare la media-voto della pagella. Minuzzolo.


Filippo Barbera




mercoledì 26 settembre 2007

Una pazzia targata Filippo Barbera

Pubblico una blobbata in cui m isono permesso di inserire alcuni omaggi cinematografici.
Vediamo se riuscite a individuarne qualcuno ...

Le cateratte della politica



Sono i giornalisti dobermann del potere: vecchi e insopportabilmente sofistici ma ancora capaci di dettare la linea. Stiamo parlando di Eugenio Scalfari, che sul V day sembra avere le idee appannate. O invece le ha fin troppo chiare?


Eugenio Scalfari dal suo scranno sublime ci serve nuove inarrivabili corbellerie maneggiando la sua

soave penna alla camomilla. Ha voluto attendere il dopo V day after addirittura per farci sapere la sua decisiva opinione. E noi lì tutti trepidanti aspettiamo che arrivi l'articolessa del divin Eugenio, il quale prendendosela comoda ci ha in qualche modo avvertito che le sue saranno osservazioni lapidarie e dense di saggezza al contempo. Purtroppo per lui e i suoi lettori benevoli, così non è stato. Era meglio se Scalfari conservasse le sue opinioni nella parte più segreta e inaccessibile del proprio inconscio. Dalla meditazione del venerabile maestro del giornalismo strampalato è uscita fuori una caotica massa di riflessioni e ammonimenti ripresi dalla letteratura sociologica del secondo dopoguerra. Sonni ed eclissi della ragione; ramanzine sulla responsabilità, primo dovere dell'uomo democratico se non vuole delegare la propria coscienza al primo dittatorello che capita; ribaditi appelli al primato della politica e dell'autorità con le P e le A maiuscole; raffronti espliciti tra la nascita dei fasci di combattimento e dell'uomo qualunque, e quella del cosiddetto “grillismo”.

Per quanto possa fare piacere la libera espressione del pensiero a mezzo stampa, l'articolo scritto da Scalfari è penoso sotto tutti i punti di vista. Le ragioni appaiono evidenti: il guru di Repubblica invita i cittadini all'ordine e alla responsabilità in un momento tra i più critici della storia recente, quello in cui raccogliamo i cocci della seconda repubblica e di tredici anni di sostanziale stasi della vera politica. La vera politica, sia o meno supportata dalla gente che scende in piazza più o meno incazzata, significa analizzare empiricamente i problemi procedendo poi alla loro soluzione.

Quindi la vera politica raccoglie al suo interno la possibilità di far parlare i cittadini sugli argomenti cardine (tasse, scuola, sanità, legge elettorale, politica internazionale, giustizia, telecomunicazioni e diritti civili) lasciando che a decidere sia la maggioranza, come avviene nelle grandi democrazie occidentali. Affinchè ciò si avveri dobbiamo togliere un malvezzo che produce risultati disastrosi: la cattiva abitudine che permette a politici, tecnocrati e clero di legiferare sugli argomenti sopracitati adducendo le solite scuse dalle gambe corte (“c'è in ballo la competitività del nostro paese, ci sono in gioco i valori cristiani, lo stato di diritto la sicurezza dal terrore”).

In definitiva deve essere concessa alla maggioranza degli italiani, popolo adulto e vaccinato, la libertà di scegliersi le regole fondamentali del viver civile, senza ricorrere all'intermediazione pelosa di politicanti, tecnocrati, teologi, imprenditori e compagnia bella. In alcuni stati degli Usa la pene di morte è ancora praticata perchè esiste una maggioranza di cittadini favorevole ad essa. I politici in questo caso si limitano a mantenerla in vigore come extrema ratio della punizione infliggibile al cittadino che trasgredisce le leggi. E stiamo parlando della pena capitale, la quale nel resto dell'america e del mondo desta sentimenti di repulsa ed è vista come una gravissima violazione dei diritti umani. Ora perchè alcune centinaia di migliaia di connazionali (i quali spero facciano da portavoce della maggioranza degli italiani) non possono contestare un sistema politico che li priva di importanti - non fondamentali ma importanti - libertà quali quelle di scegliersi i candidati alla camera e al senato, rompere il duopolio televisivo e non fare legiferare i pregiudicati?

La proposta della scadenza del mandato ai parlamentari (non eleggibile più di due volte) appare discutibile ma esiste nei principali paesi europei e comunque va interpretata come la risposta al mestiere della politica che intende la medesima quale scorciatoia per accedere a un pacchetto vitalizio di privilegi, dalla pensione facile ad un lauto stipendio. Riflettano i barbagianni della carta stampata prima di sentenziare a vanvera moralismi liberaloidi.


Filippo Barbera

Mastella di casa nella cloaca


Se la Giustizia è nello stato comatoso che conosciamo gli aerei di Stato non c'entrano niente. L'abuso degli aerei di Stato non costerà mai quanto gli abusi delle intercettazioni telefoniche, delle interminabili indagini preliminari o della carcerazione preventiva. Mastella con un voto lo si manda a casa. I giudici no”.


Il ministro di grazia e giustizia Clemente Mastella si prende una bella rivalsa sui suoi acerrimi nemici blogger aprende un blog. Da qui si difende dalle accuse che quotidianamente gli piombano in testa: abuso di potere, nepotismo, malversazione e altre porcherie che nel suo caso sembrano essere non veniali defaillance ma regolare prassi. Un momento, ho sbagliato. Il superministro eclettico e flessibile, uso a fagocitare tutte le misure di lotta antisistema, dagli scioperi della fame farsa ai blog, non è che neghi le accuse bensì si limita a sminuirle, in linea col Craxi - pensiero del “così fan tutti”. Prodi dice i cittadini non sono migliori dei politici e avrebe anche ragione se si riferisce ai centinaia di migliaia di evasori fiscali incoraggiati in questi ultimi anni dal permissivismo giuridico inaugurato dalla casta politica. Mastella più modestamente fa l'indiano fermandosi a parlare del suo spazio di competenza, la giustizia. La giustizia italiana sta male, verissimo, ma la colpa non è dell'indulto né del sor Clemente, che ci tiene a premere il pedale sull'acceleratore del vittismo più impunito e coglionatorio autoproclamandosi “capro espiatorio”.

Il viaggio a Monza, costato decine di milioni di vecchie lire, per andare a vedere il gran premio col figliolo è stata una carognata, uno sbaglio, un rutto in faccia ai cittadini. Ma non è stato minimamente una mancanza nei riguardi dei contribuenti, perchè questi vengono già gabbati pagando le indagini dei magistrati eversivi vogliosi di notorietà, col loro corollario di intercettazioni e processi dispendiosi. Dunque ricapitolando Clemente Mastella mette sù blog per diffamare – da guardasigilli - i giudici scialaquatori che a mala pena ricevono le scorte e i fondi per pagarsi la benzina. Sublime. Lui in fin dei conti non ci tiene neanche ad essere un buon politico perchè ammette gli abusi con tracotante flemma; semmai si appella alla divina provvidenza delle urne: “Mastella con un voto lo si manda a casa. I giudici no”. Già, sono un delinquente, ma legittimato dal voto degli elettori; sono uno schifoso che si permette lussi coi quattrini dei tassati, ma fra cinque anni (tre e mezzo se Dio vuole) potrete liberarvi di me. E la democrazia bellezza.


Filippo Barbera


lunedì 6 agosto 2007

Travaglio: la notizia è un'opinione

A Marco Travaglio viene rimproverata la presunzione di ritenersi il portatore di una verità rivelata e perciò assoluta, oltre che di purezza e onestà declamate e conclamate.
Il rimbrotto, chiaramente relativista, porta in buona parte la firma di gente quotidianamente impegnata a sconfessare il relativismo di ogni sorta. Ma lasciamo perdere evitando di perderci.
Pu anche darsi che il suddetto giornalista risulti alla lunga noioso e ripetitivo; che logori i nervi e la pazienza dei suoi lettori; che soffochi con la sequela di libri pubblicati; che preoccupi per lo stile incendiario dei suoi articoli (uno dei presupposti dell'ottimo lavoratore dell'informazione) e che nausei con quell'umorismo a tratti stucchevole e a tratti macabro.
Premesso tutto questo, Marco Travaglio non si è mai illuso di essere un unto dal signore; ha semplicemente richiesto una sola cosa, anzi delle cose andate perdute nella nostra informazione: i fatti. Non a caso La scomparsa dei fatti è il titolo del suo ultimo lavoro.
Lamenta la carenza, per non dire l'assenza totale, di fatti, precisamente nelle notizie più scomode: qui i fatti vengono occultati o fatti sparire del tutto preventivamente, come auspica la legge sulle intercettazioni telefoniche approntata dal guardasigilli Mastella. Ad esempio, il contenuto di un intercettazione tra Luciano Moggi e il fù ministro degli interni Beppe Pisanu, è un dato di fatto, mica un'opinione. Il problema è che il nostro disastroso sistema massmediatico anziché i fatti mette in circolazione opinioni preconfezionate dai politici, dalle loro mogli, dai loro portaborse e portavoci vari, dai loro cuochi e sarti ecc. ecc. E chiaro che i pareri di questa gente siano viziati, tendenziosi e impuri, benchè legittimi. Proprio così, è il proverbiale vino sempre buono secondo l'oste, il proverbiale scarafone sempre bello agli occhi della mamma.
Ora l'informato, per potersi definire tale, ha bisogno essenzialmente di fatti provenienti da fonti disparate: dalle aule giudiziarie così come dalle sedi di partito. L'importante è dispensarli
riportandoli integralmente senza mai censurarli. In questo modo, partendo dalla notizia sotto specie di fatto (o fattaccio), lo spettatore acquisisce gli strumenti per elaborare opinioni proprie senza l'appiccicoso ausilio del politicante di turno. Come abbiamo visto è una palmare questione di deontologia giornalistica. Certo, a voler essere maliziosi, bisogna pur ammettere l'esistenza di una gerarchia delle notizie mai rispettata da noi in Italia, dove si concede immancabilmente la priorità alla notizia più futile e digeribile. Che Kate Moss assuma sostanze stupefacenti è una notizia, un dato di fatto; che Silvio Berlusconi abbia corrotto via Previti il magistrato incaricato di redigere la sentenza SME (e conseguentemente messo le mani sulla Mondadori) è un altrettanto dato di fatto, enormemente più grave e interessante del primo caso. Dunque, degno di precedenza nella scaletta delle notizie di un tg o di un quotidiano.
A sorpresa, però, la seconda è stata praticamente ignorata, esclusi ovviamente i soliti quattro faziosi che poi realmente sono anche meno di quattro. Alla prima, invece, si è dato un ingiustificato grande risalto; va bene, era una stuzzicante perla di natura rosa-scandalistico ma dopotutto non si vive di solo gossip.
O no?



Filippo Barbera




giovedì 29 marzo 2007

La colpa è sempre delle toghe rosse.


Sarà passata si e no un'ora dalle richieste dell'accusa sul caso Moggi, che vuole la retrocessione della Juventus in serie C e quelle di Milan, Fiorentina e Lazio, che subito Silvio Berlusconi ha espresso il suo insolentissimo parere.

La colpa dell'ingiusto provvedimento ai danni della squadra meneghina è della giustizia politicizzata, ancora una volta attiva per distruggerlo e intimidire il suo intervento in campo politico. Temo che saranno in molti ad appoggiarlo e stimolarlo nel calvario diffamatorio che sicuramente si protrarrà per tutta l'estate. Giornalisti, membri di partito, opinionisti, tifosi eccellenti.

Sandro Piccinini, che autorevole opinionista non è (sarà al massimo un riguardoso telecronista dal grido d'esultanza stentoreo), compartecipa con Mosca, Liguori e altri esprit libre di Mediaset, ad uno speciale che forza l'abituale planning.

Piccinini, pippolo di giornalista sportivo, intuendo che qualcuno evidentemente poco marmotta avrà capito la mala fede del programma, dopo aver disquisito una breve difesa pro rossoneri, mette imprudentemente le mani avanti, sostenendo che <<>>, francamente fuori luogo caro Sandro (concludo per te la frase).

Il tutto è ammannito per informare in tempo reale i trepidanti tifosi delle squadre interessate alle sentenze, quindi gli si da a bere che tale arcadia si è imbandita al solo scopo di rendere un servizio agli sportivi in genere e non per una particolaristica e malsana tentazione di difendere il Milan, e quindi la squadra dell'ex premier, è quindi la squadra del loro padrone che si era pronunciato abbastanza chiaramente sulla vicenda, con l'abituale distacco e l'abituale imparzialità che gli riconosciamo volentieri ...

In caso di condanna ovviamente sarebbero partiti da quello studio i tribunali popolari e i comitati di piazza pronti a tutto pur di scagionare coram populi l'Ac Milan. Si ripete fino alla noia che il Milan non c'entra per niente, che le colpe sono minime e assolutamente veniali confrontate a quelle della Juventus, che le richieste del procuratore Palazzi sono frutto di un vergognoso giustizialismo.

Supposizioni per niente assodate da prove o atti giudiziari esortativi.

Questo alle squadre in odor di corruzione è stato un processo di cui si è parlato e sparlato molto e in diverse sedi e occasioni ma in cui nessuno del pubblico televisivo ci ha capito un granché.

Un drappello ha però creduto bene di parteggiare per il Milan, la squadra del sovventore supremo, senza esporre i fondamenti che hanno concorso a generare questa convinzione, contenendosi al puro e cieco tifo, arrivando persino ad insultare preventivamente i presumibili confutatori della frettolosa e tendenziosa tesi difensiva televisiva. Uno stupendo e riuscitissimo specchio iridescente dell'Italia che avversa i processi e odia i giudici.

Mancava praticamente solo il rito negromantico di Maurizio Mosca, quel pendolino semiserio dalle dubbie facoltà divinatorie, con la quale una generazione di calciofili è cresciuta comicamente in tensione.

Ma la prevedibilità della sentenza, eteropilotata dal grande burittinaio e sintonizzata sulla rete "Milan in Champion's league", ha disarmato finanche il sacerdote Mosca, che ha desistito alla cerimonia.


Filippo Barbera


Tempi moderni


Angelo Panebianco, Piero Ostellino e Alberto Ronchey sono tra quella schiera di pochi, eletti fortunati che difficilmente si ritroverà in difficoltà negli anni a venire. Sono i famosi e rinomati terzisti che circolano ovunque col passe-partout dello strumento giornalistico a dir male di tale e tal'altra parrocchia, a criticare questa e questaltra formazione politica, a buttare giù libri bianchi sulle ultime sgraziate generazioni traviate da un sistema scolastico e universitario troppo paritario (e scusa la rima) fatto apposta per tarpare le ali dorate dell'élite.

Piero Ostellino, nel pieno dello sfascio del berlusconismo, uccella il tragicomico regime sbraitato dalle opposizioni massimaliste, compie complessi gargarismi intellettuali e virtuosistici esercizi di stile nel parodiare il background ancora torvamente brechtiano di Bertinotti, in un articolo a dire il vero grazioso, dove si accenna a certe analogie tra il Silvio Berlusconi costruito dall'ulivo e Macky Messer, il gangster de "L'opera da tre soldi".

E ha pienamente ragione Ostellino ha sentirsi in dovere e in potere di celiare con leggerezza tempi brutti e bui, ha calcare la mano sulla sconsideratezza dei leader di centrosinistra, ha divertirsi con le pasquinate contro chi alza in maniera immotivata il tono del confronto: è una penna del Corsera mica del Manifesto. Con l'andazzo rischia di perdere il posto e la virtù e di ritrovarsi, non sia mai, ha scrivere filippiche su "L'Unità", in buona compagnia di Marco Travaglio e Antonio Padellaro. Angelo Panebianco dirige coraggiosamente lo strale, che strazia senza lasciare segni, verso i corporativismi bipartisan, i quali lavorano a sbarrare la strada allo sviluppo. "Tony Blair - dice - in Inghilterra ha incrementato le tasse universitarie e consegnerà ai posteri del regno una macchina accademica all'avanguardia, selettiva e rigorosa".

Panebianco dovrebbe francamente rammentare, sempre dalle colonne del Corsera, che l'Italia del migliore dei governi possibili se ne sta relegata all'ultimo posto nella classifica dei paesi che investono e ripongono le proprie speranze nella ricerca scientifica, in congrega con la Grecia, pace all'anima sua.

I cervelli li abbiamo anche in casa nostra, basta tenerceli stretti, evitare che vadano a ingrossare le fila della ricerca Statunitense, sostenerli con le giuste misure economiche, incoraggiare la nascita di nuovi laboratori.

Invece niente, siamo il solito paese immaturo aggrappato agli scogli del provincialismo che aspetta le "cose nuove e meravigliose" dall'America.

Risultato di cui dobbiamo essere fieri e orgogliosi. Merito dell'incontinenza religiosa dei vari Buttiglione, di una pattuglia laica imbelle e fallimentare comandata da untorelli del suo calibro, sempre pronti ha sostenere, abbaiando, la gran via moderna a spese del cittadino e ha infilarsi la coda in mezzo alle gambe quando arriva puntuale il richiamo del Vaticano o del grande capo.

I loro occhi di lince liberali vedono lo scandalo che VOGLIONO vedere, denunciano l'iniquità che reputano balzanamente tale, mantengono basso il volume per non disturbare l'opra di chi ben sanno loro e il sonno beato del popolo. E mi si perdoni questo soggetto maschile da vocabolario populista usato per colloquiare con voi, professorini anglofili con la paturnia del fare moderno e civile, della compostezza e della smisurata, eterna ipocrisia del doppiopetto. Un anglicismo di maniera e vieto irradiato nel paese delle querele precox, così come le eiaculazioni e la dementia. Il paese del tamarro e del vaffanculismo, abitato da una turba di giovani completamente deficienti e di adulti rincitrulliti che la notte pregano qualunque Dio capace di farli scendere dal mondo. Un'universo disarmante che va affrontato, per le rime, disarmati, animati da una costante volontà di ridere per non piangere, impegnati a svelare il trucco cialtrone e a farsi beffe dei finti furbi con una mai paga spietatezza assordante e svuotante. La sprezzante occhiata del positivista si rivelerebbe ridicola e inefficace, denoterebbe una vistosa mancanza di tatto.


Filippo Barbera

martedì 16 gennaio 2007

Il molle-agiato

Rock e lento, nuovo metro di tassonomia qualunquista preconizzato dal qualunquista per antonomasia Adriano Celentano.
Eh si, rieccolo redivivo uscire dalla sua lussuosa spelonca dove se ne sta rintanato come un orso in laborioso letargo 365 giorni su 365; letargo laborioso speso a preparare fantasmagoriche scenografie, duetti e riesumazioni di mummie dell’avanspettacolo e censurati queruli portatori, nell’ordine, di:
1) Audience accompagnata da graveolente tanfo di sarcofago;
2) Polemichetta (molto “etta”) col quale riempire la pseudo programmazione RAI, ramo Talk show.
3) Geremiade infinita della sinistra sulla censura sistematica applicata dall’autoritario (Sudamericano, illiberale ecc.ecc. ) governo Berlusconi e relativa domanda sputtanatrice della destra: <<>>
Dubbio di inciucio D’Alema-Biscione ai tempi della bicamerale.
Faccio notare che per ovvie ragioni di spazio e risapute questioni di umanità ho risparmiato ai lettori il tedio delle cazzate in prima pagina sfornate da una caterva di quotidiani e settimanali; le stupidaggini en plein air di certa satira televisiva falsa e demagogica e tanto altro che non vi sto a dire per ottemperare all’impegno di non annoiarvi preso quattro righe fa.
Dunque,dove eravamo rimasti? Ah si! Ad Adriano Celentano.
Adriano Celentano ritorna a illuminarci col suo irriverente genio, e al suo irriverente genio plaudono in molti e insospettabili perfino.
Vittorio Feltri, in primis, il quale ha reputato sconveniente l’opzione diffamazione + querela, ormai collaudata, e da comare ha cantato schiettamente le lodi al cantautore, dirottando però l’attenzione sull’opportunismo e la furbizia del personaggio (notoriamente equilibrista e capace di clamorosi voltafaccia) più che sul suo dubito orientamento a sinistra.
Insomma, almeno per questa volta Feltri è riuscito a tenersi alla larga dal ruolo di Elliot Ness della situazione che scopre il marcio finanziario celato dietro la presunta immarcescibilità del vip popolare amato da tutti (e, torno a ripeterlo, ha evitato cosi l’ennesimo, lungo cavillo burocratico).
Dalle pagine del “Foglio”, frate Ferrara lo assolve bonariamente, felicitandosi col diretto interessato per il successo ottenuto dal programma (e chi lo avrebbe messo in dubbio?) e complimentandosi per la pacificatoria scelta di ospitare “coloro che tornano dopo una lunga assenza”.
Il ritornante è Michele Santoro, bestia nera di Ferrara, cacciato dalla RAI col beneplacito dell’elefantino; elefantino entusiasmato dalle coreografie del programma, per il quale profonde aggettivi strampalati e rutilanti (tra le tante <<>>, con la Carmen impersonata dalla procace Luisa Ranieri).
Su un punto Celentano è riuscito: mettere d’accordo Giuliano Ferrara e Curzio Maltese, che dalle colonne di “Repubblica” osanna “Rockpolitik” come la <<>>, a dispetto della palesata idiozia degli assunti.
Le reclame poi hanno fatto passare la più falsa delle immagini con cui si potrebbe targare il molleggiato, quella dell’ultimo dei Pasolini (ma, ahi me, di Pasolini ce n’era uno solo!) dell’incontaminato “selvaggio buono” Rousseuiano, a cui è configurabile anche a livello psicosomatico: vedere la faccia scimmiesca del molleggiato, Lombroso lo avrebbe rinchiuso seduta stante in una gabbia per bertucce con tanto di banane e chincaglierie. Purtroppo Celentano di incontaminato ha davvero poco. Ha cavalcato da viscido camaleonte tutte le epoche e tutte le mode, ha fatto propri, risemantizzandoli in chiave qualunquista, gli stilemi dell’ecologismo oltranzista, ha speculato sulla fame nel mondo e sulle varie congiunture economiche, è stato bravissimo, in tempi non sospetti, a condannare tutto e tutti: la televisione ai tempi di “Svalutation” con l’allusivo invito a spegnergliela davanti alla faccia; la donazione degli organi umani con l’assurdo grido d’allarme da incubo Orwelliano che condannava la presunta arbitrarietà della procedura: “doniamo gli organi? enbè, mettiamo che domani mi sveglio senza una gamba!” .
L’irritante costume, ormai invalso ovunque, della polemica ad ogni costo, la provocazione per la provocazione a livelli di gratuita ovvietà e irraggiungibile insensibilità verso gli spettatori, tutto piegato al personale traguardo mondano del “far parlare di sé”, altro che meditativa intelligenza al servizio del cittadino.


Barbera Filippo

giovedì 11 gennaio 2007

Bocca taci!

Rimescolando la storia della prima repubblica, può capitarci di incontrare il Giorgio Bocca investigatore che indaga, occhiali scuri, taccuino, penna e pistola nel fodero, sui retroscena della strage di piazza fontana, pervaso da pessimistico e sarcastico odio anarchico verso la polizia. Rettifico: verso i capoccia della polizia.
Entrato in una scuola di periferia della mole, e siamo gia nel versante Philip Marlowe o del suo corrispettivo Siciliano incarnato da Salvo Montalbano, per tenervi un fervorino sulla resistenza, Bocca si vede scacciato in malo modo dal lancio di frutta e verdura e mandato americanamente a quel paese: “vaffanculo nonno!”.
La preside lo crede un successone e aiuta l’ex partigiano a tirarsi fuori da un sicuro linciaggio. Quegli immigrati terroni non avevano mai sentito parlare di resistenza, non erano ancora nati ed erano cresciuti nel mito del bandito Giuliano, trasfigurato dalla credulità popolare in una sorta di Robin Hood o Zorro locale.
Bocca continua la monotona predica puntando l’indice sull’etica del malcostume perseguita dagli Italiani (figli indegni, in qualche modo, di Michelangelo e Leonardo), su preciso assist dei corrotti governanti.
Benché apprezzi i buoni propositi del giornalista, frutto di una viscerale e anche sincera e accorata indignazione di un figlio della resistenza, le reprimende e le escandescenze da sanculotto finiscono presto per stancare e far circolare l’infausto provirus del qualunquismo, abile a inserirsi sotto la cromatura del civismo.
Cerchiamo di finirla una buona volta con il malsano dopolavoro e dopopranzo dello sparare a zero sulle istituzioni, schifose, della prima, seconda o non so che diavolo, repubblica; troppe cartoline e storielline e facce fotogeniche ci offre la politica in questo presente, con un giornalismo diviso in fazioni ed estraneo al senso critico; ma non è coi de profundis ne col roba da chiodi generalizzato ed esteso a levante e a ponente che riusciremo a migliorare e a costruire qualcosa.
Il dissociato che scrive per la Stampa e per il Corsera è uno con una personale visione del paese e del mondo che può essere condivisa o respinta, ma non è e non può essere sistematicamente tacciato di collaborazionismo e scarsa sensibilità al delicato argomento dell’informazione, libera informazione, italiana.
Riccardo Barenghi, Piero Sansonetti, Adriano Sofri e Lucia Annunziata hanno avuto i loro bei dispiaceri dagli anomali mass media italiani, perché chiamarli pure imbelli o “terzisti” (che non sono) con tanto di perfide virgolette?

Filippo Barbera

Il lungo addio

La casa delle libertà tributa un lungo applauso a Silvio Berlusconi, finalmente presente in aula. E l'immagine simbolica del nuovo medioevo ventilato trentanni fa dal professor Umberto Eco. Il pamphlet del semiologo esce dunque dalla casualità cui sembrava inchiodato, una casualità psicotica di uno fissato col medioevo e che sfrutta ogni occasione per dimostrare come ce l'abbia a morte coi mass media. Questo applauso da claque, lungo e spropositato, pensato e attuato unicamente per ostare la parola al presidente del consiglio Romano Prodi, descrive il perdurare della ademocraticità della coalizione di centrodestra. Coloro che si ritengono ragionevoli in quella bolgia scomposta farebbero bene ad accelerare il processo di transizione della leadership, proprio come accadde quindici anni fa ai paesi dell'est europeo svincolatisi dal potere sovietico. Un applauso totalizzante che stava a significare: "il nostro capo è lui, noi apparteniamo a lui, non siamo niente senza di lui, moriremo con lui" (?). La libertà democratica ha fatto il suo diligente corso estromettendo Silvio Berlusconi dall'incarico di presidente del consiglio di tutti gli italiani, ma per una schiacciante maggioranza di senatori e deputati il capo resta e resterà LUI, al di là dell'esitante ma legale responso delle urne.
Così la pensano una buona porzione di italiani, impauriti dai provvedimenti del nuovo governo, nei confronti del quale continuano a mantenere riservatezza, diffidenza, rassegnato pessimismo. Parecchi prendono le sembianze di agitatori denunciando l'aumento inaccetabile delle tasse, i provvedimenti vendicativi e intimidatori nei riguardi di tassisti, farmacisti, avvocati e altre categorie legate elettoralmente alla destra. Molti di questi inopinabili agit-prop di destra sono innocenti vittime del grido di allarme terroristico e sconsiderato lanciato da Berlusconi e da altri conestabili della Cdl. La strategia del nemico alle porte, del fare terra bruciata rifiutandosi di pagare le imposte con la renitenza fiscale, nuoce specialmente alle fascie sociali che questo centrodestra fuorilegge dovrebbe tutelare. Berlusconi è il più grande errore della destra italiana moderata e la più grande opportunità per quella estrema, antisociale ed eversiva. Ha corrotto persino i missini e i centristi conservatori anche se non completamente; certo ha inferto un duro colpo alla attendibilità di tali formazioni politiche.
Il consiglio spassionato e prezioso che posso io uomo di sinistra dare è quello di disfarsi di questo ingombrante fardello. L'esperimento cesarista è fallito. Casini si persuada che i partiti costituenti la Cdl non possono essere ricondotti nè alla logica delle correnti interne della balena bianca nè alle tattiche ricattatorie e condominiali praticate negl'anni del pentapartito o del centrosinistra del boom. Va aperto poi un serio e impegnativo dibattito sul riformismo della destra, argomento che non travaglia mica la sola sinistra, dilaniata e dissociata tra i nostalgici di Fidel e gli avanguardisti del partito democratico.
Se da questa ipotetica discussione intestina uscirà in maggioranza la voce riformismo e modernità, allora sarà conveniente tagliare i ponti una volta per tutte con la Lega e con quanti non possono fare a meno della collaborazione (che a quel punto muterebbe in coabitazione forzata, sempre se gia non lo è) con l'asse del nord. Un bel congresso plenario, che scuota fin dalle fondamenta il moderatismo conservatore dello stivale, traghettandolo verso una spiaggia che gli permetta di condurre una serena opposizione. Ora come ora, nelle condizioni d'oggigiorno, ribaltone o meno, non andreste da nessuna parte.

Filippo Barbera

Jack London, un lupo metropolitano.

A parte la rigidità di alcuni personaggi canonici, il romanzo Martin Eden è un'interessante e tragico ritratto dell'artista giovane all'americana.

Avete letto per caso Martin Eden, il libro eminentemente autobiografico del grande Jack London?
Bè, ve lo sunteggio io. Cominciamo con una piccola premessa meschina meschina. Chi ricorda in "C'era una volta in america" il giovane Noodles sfogliare nel cesso di un casermone il suddetto romanzo di London? Lasciamo perdere. Un giovane marinaio di fine 800', bello (o almeno irresistibile alle ragazze), dal collo taurino, abbronzato, massiccio, ignorante come una gallina e tuttavia desideroso di imparare le lettere e la filosofia e tante altre cose per poter scrivere le proprie avventure marinaresche e dar sfogo alla sua sterminata fantasia.
E questo l'incipit e, se vogliamo, il leitmotiv del libro, che inizia col protagonista che salva la vita ad un giovane borghese e viene accolto a casa dai genitori di questo, dove conosce la laureanda Ruth Morse, sorella del beneficiario del buon samaritanismo di Martin.
Discutono di cultura: letteratura, filosofia e sapere in generale.
Martin, neofita, crede lontani e irraggiungibili tutti quei libri che scorge nella biblioteca della casa della ragazza.
Accetta il consiglio di lei, iscrivendosi all'università, ma lo studio è lì accademico nel vero senso della parola. Gran professoroni boriosi si prendono gioco di lui non riuscendo ad afferrare e stimare le doti e il genio letterario del ragazzo: un disastro l'esame di storia Americana. Ma lui persevera, vuole un futuro diverso, una posizione, celebrità per se, per Ruth, per la sorella e i nipoti che vivono una vita rispettabile sbarcando faticosamente il lunario.
Va a vivere da solo, scrive e riscrive un pozzo di storie, novelle a iosa, anche alcuni romanzi. Passa attraverso mille esperienze: lavora in una lavasecco in condizioni quasi disumane, collabora da dipendente regolarmente snobbato ad un giornale come scrittore di feuilleton, pratica la più bassa vita da bohemienne, vendendo e ricomprando lanterna, cucinino e abiti al banco dei pegni per sobbarcarsi le spese.
Incontra un filosofo vagabondo e tubercolotico, Brissenden, che lo introduce in una singolare comunità di liberi pensatori lerci e colti e lo incoraggia a proseguire nell'attività di scrittore.
Sperimenta la carità con una donna portoghese madre di una nidiata di figli, l'amore alternativo e frenato con una piccola operaia.
Raggiunge il successo e il denaro, ma a quel punto perde la volontà di
vivere, la stima profonda e autentica della gente. Riflette e matura la convinzione dell'ipocrisia e della grettezza di Ruth e di tutta la razzumaglia borghese, della loro concezione miserabilmente utilitaria della cultura, avversa al demone artistico maledetto e solitario.
Mentore e complice di Martin è Joe, compagno di sventura nell'infernale lavasecco liberatosi dal lavoro e diventato portentoso globe-trotter che vive di elemosina, quasi un Vitangelo Moscarda ribellatosi al capitale, che ha mandato al diavolo il dovere e il lavoro.
L'utopia anarchica è negli Stati Uniti quello che l'utopia socialista è stata per la vecchia Europa.
Rifiutando di costruirsi una vita "borghese" e vuota, impossibilitato a scampare all'appiccicosa notorietà, si imbarca in una nave di crociera.
Una notte stellata lo convince a mettere in atto il piano meditato da tempo. Si lancia dall'obloe della nave e nuota per qualche minuto.
Poi, piano piano, lentamente, si lascia sprofondare e recide ogni legame con la vita e con gli uomini per compenetrare nella natura e contemplare lo spettacolo meraviglioso offerto dai fondali marini notturni. Abbandonatosi al nulla, non sente più niente.
E nell'istante in cui lo viene a sapere, smette di saperlo.
Stupendo.

Filippo Barbera

Di Terzani e della Fallaci

Non possiamo debellare il male del terrorismo senza eliminare il male che è nel grembo dell'occidente: Tiziano Terzani, allievo di Ghandi e Buddha dà una grande lezione di stile alla valchiria Oriana Fallaci.
Usando l'intelligenza e la soave contemplazione degli orientali anzichè la vorticosa, nevrotica e corriva stupidaggine consequenziaria occidentale. Elmetto e parabellum vanno bene ai gonzi che travestono il problema dei tempi (l'imponderato scontro di civiltà e di religioni) con il confortevole e comodo costume della tragedia greca, con tanto di sacerdotesse, responsi e visioni di prescenza divinatoria estratte dalle vive viscere di animali. Uno stile e un gusto macabro come ogni dottrina ingessata, come ogni mortifero credo ideologico che si crede al di sopra dell'uomo e della ragione solo perchè la temperie politica internazionale è di merda e in tutto questo casino è ritenuto saggio scordarsi il relativismo, essenza nascosta dello spirito democratico e non solo rilassante cacadubbismo.
Terzani è un monaco guerriero nel senso dello spirito; anacoretico ed eretico, paziente e tollerante anche nelle critiche spietate, che sono poi il comodo domicilio di colui che ha capito poco o nulla, che è rimasto basito e travolto dagli eventi senza aver avuto tempo e perizia di esaminare la faccenda a sangue e mente fredda. L'uomo di mondo fattosi uomo della strada, defilatosi da ogni impegno e uscito in tempo dalla casa dell'ideologia, in tempi non sospetti, quando ancora il tetto reggeva in tutta la sua solidità.
Per farla breve Terzani si aggrappa Leopardianamente allo scoglio della ragione, del relativismo, dell'utile e rivelatoria speculazione filosofica e storica. Fa degli esempi elementari, daccordo, ma su cui nessuno degli storiografi si è seriamente soffermato, occupato a stilare cifre statistiche fredde come ghiaccio, sancire l'ascesa o la caduta di grandi potenze, celebrare il declino dell'occidente. Dimenticando il lato delle conseguenze etiche e morali del colonialismo, delle ferite e dei virus, insomma la nemesi storica che potrebbe coglierci in vecchiaia, oramai santi e buoni, democratici e altruisti verso il resto dell'umanità che ieri c'è servita da risorsa umana per lo sviluppo della nostra civiltà.
Come direbbe un prof. di storia economica ai suoi allievi, come diceva Himmler alle sue SS.

Filippo Barbera

Arruso.

Pierpaolo Pasolini, personaggio a volte conformista a volte anti-, al tempo stesso comunista eretico e ortodosso, provocatore e moderatore, innovatore, sempre, nel suo poliedrico magistero artistico. Progressista filosoficamente, tradizionalista nella dialettica, in buona parte antiradicale creduto criptoradicale dai compagni comunisti e universalmente spacciato per pezzo pregiato della gioielleria radicale dal troppo verde per ricordare Daniele Capezzone. Un pezzo pregiato ed eccentrico, un poeta di fede marxista cosciente del paradosso
della comunicazione in cui viveva fino all'autodenuncia. Un intellettuale mai soddisfatto e mai sereno, sempre alla ricerca della libertà nella libertà, come consigliava Toqueville (certo non uno dei mentori di Pasolini) a tutti gli spiriti degni della democrazia.
Sempre in trincea a denunciare le mostruosità della società e a trovare un tratto negativo nei fenomeni che polarizzavano l'attenzione e l'entusiasmo dei più. Memorabile "comizi d'amore", documentario del 1964 sulle abitudini amorose degli italiani che cambiano, capace di schiantare una vanesia Oriana Fallaci, mai così ottimista e libertaria coi giovani che andavano dalla fabbrica alla pista da ballo in 500 e fregandosene della lotta di classe. Pronta la risposta di Pasolini: <<>>. Oggi Oriana sembra avere abbandonato le magnifiche sorti e progressive per iniziarsi come Leopardi, ma con meno finezza e discrezione, al pessimismo cosmico. Un costante volersi distinguere e voler praticare la via del paradosso democratico, con eleganza e verve dissacrante congeniale ad un liberale come lui, degno collega di Wilde e Shaw. Lungimirante e acuto, omosessuale coi sensi di colpa derivanti dal suo essere cattolico e borghese; difensore (da ateo marxista) dell'essenza del cristianesimo, tanto da dedicare alla figura di Cristo
un film bellissimo "il vangelo secondo Matteo" e un piccolo ritratto, quella "ricotta" con Orson Welles nei panni di un regista americano marxista che stigmatizza la società italiana, e col sottoproletario affamato che muore d'indigestione in seguito a un pasto luculliano passatogli dalla troupe. Per divertimento ovviamente, acuta metafora del boom economico e del benessere a portata di tutti, strumento surrettizio del potere usato per imbonire la massa e continuare indisturbato il suo perverso esercizio. Temi onnipresenti nell'arte pasoliniana, dalla fase neorealista al periodo surrealista culminato in "Salò". E pensare che qualcuno l'ha definito un personaggio "tecnicamente reazionario" (Giuliano Ferrara) solamente perchè aveva consigliato di spegnere la televisione, luogo della menzogna sistematica, da ottimo sociologo.
Altri, nella eco che ha accompagnato i trent'anni dal suo brutale assassinio, lo hanno definito semplicemente per quello che era (tra l'altro): un poeta. Lo disse Bernardo Bertolucci, anch'egli poeta e figlio del poeta Attilio, il giorno del funerale di Pasolini.

Filippo Barbera

Tanto rumore per nulla.

Mesi fa si dibatteva a proposito della figura si Joseph Stalin, uomo politico e tiranno a seconda delle angolazioni da cui lo si osserva, su cui la storiografia discute da decenni. Luciano Canfora, esimio storico di stretta osservanza marxista, non si perita di paragonarlo addirittura a Pericle, l’eroe Ateniese che si avviò sul viale del tramonto subendo un processo con l’accusa di peculato; una fine lontana da quella del “batjuska” giustiziere dei nazisti, pianto da milioni di russi nel giorno del suo funerale. Tra i punti di maggiore complessità su cui gravita tutta la querelle, segnalo la bontà o meno del patto Ribbentrop-Molotov, accordo di non aggressione, brillante mossa per tergiversare operosamente e mettere al riparo la poderosa industria sovietica (smontandola da Mosca, Leningrado e Stalingrado e rimontandola poi oltre gli Urali) dal selvaggio imperialismo di Hitler, considerato da molti come la prova tangibile del precario equilibrio psicofisico del dittatore sovietico, della sua illimitata e perversa tirannide sanguinaria e masochista immune dalle preoccupazioni per la sorte dei polacchi e degli stessi Russi.
Comprendo la miriade di banalità sfornate da quanti fraternizzano con questa strampalata idea della sub asse Mosca - Berlino: <<>> ecc., senza escludere le improprie diramazioni di una complessiva presa di posizione antimarxista; attenzione, non antibolscevica, ma antimarxista, poiché è da lì, ab imis, che provengono i guai.
Parrebbe gia una castroneria identificare il bolscevismo col marxismo, che equivale a comparare l’ecstasi col caffè, figuriamoci immaginare una comunella o sfiorata comunella tra Hitler e Stalin.
La critica alle finalità escatologiche del marxismo, cioè la rivoluzione, il ribaltamento delle classi e la dittatura del proletariato come unica soluzione valida ai contrasti stridenti del sistema capitalista, inizia nella seconda metà dell’800’ con la scuola economica tedesca, i “socialisti della cattedra”, impegnati a dimostrare la verità marxiste e avanzare proposte di interventi statali riformatori, confutando ed enucleando gli aspetti dottrinari e rivoluzionari, inapplicabili senza un sovvertimento delle istituzioni liberali e democratiche di una nazione.
Questa vuole essere solo una modesta nota a margine, essenziale per inquadrare il nodo centrale del tema, che è Stalin e il bolscevismo e non il comunismo e l’ideologia marxista in generale o peggio il Marx economico, molto distante e molto discutibile dal Marx filosofo, genitore di una coscienza operaia, di quell’immane stereotipo di filosofo e critico impegnato ad impostare il comportamento, lo stile di vita, le letture, i film e lo sport di un proletariato indifferente, come in “uccellacci e uccellini“, scremando ciò che è (o può apparire all’intellighenzia sovietica col parabellum spianato) incline ad una estetica e ad una etica borghesi. Non fu Marx ad insegnare ai russi di denunciare i propri vicini di casa.
Detto ciò, se parliamo di tirannide o atrocità un raffronto tra i totalitarismi nazista e sovietico (non comunista!) è senz’altro possibile, ma se ragioniamo col senno del poi di un sedicente accordo per stritolare la Polonia ed il liberalcapitalismo occidentale ecco che ogni tentativo di giustapporre i due dittatori diventa inaccettabile, e inapplicabile ogni tipo di paragone. I morti prodotti dai lager poggiavano su di una delirante teoria pseudo scientifica antropologica, la supposta superiorità della razza ariana; i morti dei gulag su di un’altrettanto stupida tesi, inerente l’ideologia, le classi sociali e via elencando.
La stessa motivazione, in ultima istanza, per cui furono trucidati centinaia di migliaia di cittadini argentini, cileni, boliviani, cubani da feroci regimi militari telecomandati dai capoccia di Washington.
Gettati in pasto agli squali, fucilati in massa negli stadi, luogo canonico della tradizionale gioia di vivere dei sudamericani.
Altra polemica quella di vietare l’esposizione in pubblico della bandiera rossa con falce e martello per rispetto verso quei paesi dell’est europeo da poco entrati nella UE. Rendiamoci conto che una simile decisione seppellirebbe anni e anni di lotte dei lavoratori di tutto il mondo: la bandiera rossa trapuntata di falce e martello è stato il vessillo della speranza di un futuro migliore per milioni di operai, contadini e minatori angariati da franchigie di innumerevoli specie.
L’operaio francese, il contadino cinese, il servo della gleba russo (o l’anima?), il “cafone” dell’Italia centro meridionale, il minatore peruviano hanno avuto, per intere generazioni, una storia diversa da raccontare ai nipotini rispetto a quella del lavoratore polacco, ceco, ungherese, bulgaro, romeno.
Rispetto verso quanti hanno lottato per la libertà e la giustizia per vedere riconosciuto il proprio sudore, sempre e comunque, sia contro l’armata rossa o la CIA , sia contro i gendarmi di Bava Beccaris. Sotto qualunque bandiera: è una questione di umanità, non di araldica politica.

Filippo Barbera.

Berto filava

Rientra nel nostro buon senso italico la catalogazione vittoriniana di eterno fascista erogata al buon Giuseppe Berto? Il buon Berto che dopo la morte di un suo illustre lodatore, Ernest Hemingway, portò la barba lunga per un anno intero, in segno di lutto, come recita la costumanza calabrese. La Calabria dei nuovi briganti e della riforma agraria che era stata il teatro del suo primo romanzo neorealista, "Il brigante". Intellettuale o forse anti intellettuale del tempo che vide la morte di questa categoria o censo o ancora specie umana e animale, dalle cui ceneri nacque l'uomo tout court, come ammoniva una famosa massima sessantottina. Berto era detestato o se vogliamo ufemizzare non era amato per il suo provincialismo prima che per le notorie e provocatorie simpatie fasciste. Lo scrittore veneto del resto aveva fatto la guerra con la camicia nera, patinato (ma non sommerso) di ideologia, al contrario di una folta schiera di intellettualoidi grandi e piccini o addirittura venerandi, che si intestardivano a escluderlo dall'olimpo delle lettere, dal parnaso, stanziandolo a praticone del copioso filone della narrativa neorealista. E lui ci moriva d'invidia, si ammalava il fegato, costruiva col fertile seme delle sue elucubrazioni complotti culturali, manie di persecuzione e complessi di inferiorità paranoidi. Almeno in principio.
Con l'andare del tempo si accorse dell'inutilità degli sforzi e della fallacia dei sogni di grandezza che aveva rincorso. Lui era un grande gia dal 1964, anno di quel condensato di ossessioni psicoanalitiche che è "Il male oscuro", se vogliamo pedantemente partire da una solida quanto pleonastica base cronologica. Si è parlato di "bigino freudiano", piccola malignità paternamenete concesso da troppi scrittori psicologicamente affettati, impediti di raggiungere risultati spontanei dalla loro drammatica pienezza di sè, carenti di profondità d'animo e coscienza. Parlatori infiniti e sfiniti, attaccati morbosamente all'amore per la parola che loro mettono sopra l'idea e sopra il pensiero, contrariamente alle raccomandazioni del giovane ma gia sagace Alessandro Verri. Berto è lo zio dei sessantenni di oggi.
Ha fatto la guerra, non del tutto inconsciamente, dalla parte sbagliata, coi perdenti. Dava scandalo sedendo in sinedrio assieme a Evola e Plebe. Era lo zio acculturato nel senso moderno, novecentesco, che riesce a dar corpo alla spazzatura accumulata nel fluire della vita. Mette mano su cose cristallinamente fragili, come l'amore tra padri e figli che non è quella cosa trita e melensa che ci insegna la colorita pubblicità, ma viceversa un nonsochè che scade nell'odio o può essere magari confuso (o soltanto confondersi) con l'odio, scatenando l'eterna incomprensione interpretata dai lealisti come ribellione o mondo scorretto o gioventù bruciata, senza Dio. E dai giovani soventi difesi dai sociologi come la liberazione individuale all'autorità dispotica del/dei genitori/e.
Leggere "Il male oscuro" è utile per quelle persone venute su magari in provincia, formatisi in una temperie culturale che non è la Sorbona nè la chèz verso Guermantes, ma è comunque degna di essere raccontata e vissuta, attraverso la lettura, dai lettori, i quali alla fine si riconosceranno più che lettori e scopriranno nel libro qualcosa oltre le definizioni di bigino e polpettone dagli ingredienti sveviani.

Filippo Barbera

Guia Soncini e i signornò

Vedo che molti blogger si dilettano a sfottere l'ex recensionista del Foglio Guia Soncini, la tipa nata per trovare il difetto nascosto ai vip mondani e politici, il fondotinta appiccicaticcio, la sniffata di troppo, la scappatella ferragostana, il capo firmato sfoggiato alla marcia di Assisi. E una razza di elzeviristi ibrida, costituita da eterni rimandati agli esami di giornalismo, di sfigati che scimmiottano i veri grandi in questo ramo del giornalismo.
Il maggior difetto di Guia Soncini sta nel disprezzare le regole della buona educazione e della gentilezza, vitali nell'elzevirista, che la fanno costantemente assomigliare ad una casalinga disperata che litiga col macellaio per un conto troppo salato.
Quel tono incazzato e perentorio, ostile alla piaggeria che si deve essenzialmente instaurare tra il divo puro e non taroccato e il puro giornalista di razza nel momento dell'intervista, fra un tè e l'altro, fra pasticcini e vecchi cimeli, nello stile dei maestri come Roberto Gervaso, antipatico e colto quasi quanto Mughini, o del vegliardo Indro Montanelli, che modestamente confessava i segreti del mestiere, di come disbrigasse le interviste con "Quattro chiacchiere e un paio di immaginose invenzioni", alla maniera dei grandi scrittori di feuilleton divisi tra gala penna e calamaio.
Questa piccola aggressiva dal visetto pulito, battagliera e tagliente sui temi che riguardano la donna, stonata nel momento di premiare la tv di qualità, spaesata dinanzi al genio, rancorosa al cospetto del disappunto altrui, gioca a fare la Oriana Fallaci di provincia provocatoria e sputtanante, ma il gioco non le regge e l'impalcatura viene giù subito. Appare in tutta la sua trascurabile insignificanza, brucia il fatto che scrive per quotidiani e settimanali sbagliati, dove non è azzecca neanche mezza infuriandosi e schizzando fango e veleno sui poveri lettori che osano inviargli una lettera solo un pò rimostrante. Cestinata unitamente alla montagna di scartoffie che scrive da quel Foglio, questa casafamiglia ribollente di geni in sinecura, giubilati, che brucano lo scibile convinti di servire e di essere seguiti da una massa ben più imponente di quella spenta e debilitante mini-orda di snob scocciati dalla società ma che non vogliono cambiare, limitandosi a fare chiasso e confusione intorno alla minima quisquilia del tal filosofo o del tal antropologo, come se la gente fatta di carne e ossa e non di spugna e plastica e spazzatura come loro consultasse Leo Strauss o gli aforismi di Ratzinger o Cervantes prima di decidere se, con chi, come e quando avere un figlio. Basta, mi accorgo di aver introiettato lo stile della Soncini e di essermi sfogato abbastanza. Anche io sono un pessimo elzeviro che sa solo sparare a zero su travet della carta stampata impagliati.

Barbera Filippo

Neo Gollismo all'italiana

L'idea perseguita da AN di un partito unico di ispirazione neo Gollista, in sincrono con la vecchia DC ripescata da Rotondi, è la prova limpida della carenza propositiva della politica di casa nostra. La prova del nove sulla non originalità che investe la destra in un momento cruciale della sua storia.
Le ipotesi offerte dalla rosa sono: un partito liberale neoliberista Reaganiano, subito scartato, primo perchè è dal 1994 che Berlusconi definisce tale la sua creatura senza decidersi a passare ai fatti concreti; secondo, una ricetta economica all'insegna delle liberalizzazioni incontrerebbe non pochi scogli nel centrodestra, a partire da Alemanno per finire a Follini passando per Calderoli.
Lo si è visto in questi quattro anni caratterizzati da una politica economica prevalentemente protezionista, statalista e corporativista diretta dall'asse del nord Tremonti - Lega, lillipuziani patetici contro il Gulliver Cinese. Muti gli ultraliberisti Sacconi e Brunetta.
Quali sono allo stato attuale le tre probabilità coltivate da AN? Come abbiamo sinteticamento dimostrato, è meglio stornare da qualsiasi progetto liberaldemocratico all'americana, anche a causa di sacrosanti fattori antropologici. Non corre buon sangue tra l'aulica tradizione anglosassone conservatrice e l'inclassificabile reazionarismo latino. Dovessimo fare un paragone coi venti avremmo il ponente monarchico, che ha usato la fedeltà alla repubblica solo come bandiera di comodo; il levante di Alessandra Mussolini, brava a far valere la forza suggestiva del patronimico e la bonaccia Finiana insidiata dallo scirocco della destra sociale Alemanno - Storace che gli addebita una metamorfosi democristiana. Accusa sottoscritta anche dal vento di levante, con la pimpante Mussolini che (ultimamente batte il tamburo con la disobbedienza civile e il libertarismo di destra ostile a "froci e partitocrazia") rimarca la funesta opera finiana: ha ridotto la povera fiamma in un moccolo consunto. Il ponente monarchico ha una storia anche se e merita di essere trattato di conseguenza, a parte.
La fedeltà alla monarchia sembra giocare un ruolo di primo piano nella trasfigurazione di AN da destra repubblicana del premierato fortissimo a destra convenzionale, da target europeo, con un quid da non sottovalutare, appunto, di ascendenze monarchiche. Ma la simpatia profusa dai nostalgici, con atti a volte discutibili e violenti, in polemica con l'autorità repubblicana, è insufficiente a salvare una casata screditata e castrata politicamente, che da occasione di far parlare di se solo unicamente in occasioni di nozze, serate in società e pranzi di gala dove volano cazzotti e scappano colpi di fucile.
L'imbarazzo è quasi generale per tarsferirsi e dico quasi perchè c'è sempre chi è disposto a fare il giapponese della jungla, nella fattispecie il principe Ruspoli, maestro di bon ton a porta a porta, quando persino Giuseppe Consolo, vestale monarchico e pluri imparentato con diverse famiglie patrizie (la sua gentil signora è una Romanoff), è perfettamente al corrente del basso profilo istituzionale e umano del clan Savoia.
Il modus vivendi a proposito della struttura del partito, potrebbe risiedere in una formazione politica di matrice gollista, latina e mediterranea come temperamento e valori, in linea con certi spiriti focosi ed energumeni che bivaccano all'interno di AN. Tracciato il solco si passa ad alterare il non certo brillante archetipo francese, giocando il gioco dei sinonimi e dei contrari dal quale non possono esimersi quanti vogliono rinnovare un partito che conta tarscorsi poco commendevoli.
La tattica speciosa poi, sembra fatta apposta per l'umore da moderato sforzato e sibillino di Gianfranco Fini.
E arrivato il momento di tentare di redigere una virtuale carta dei valori, uno specimen dell'indirizzo programmatico della destra postfascista scritto, manco a dirlo, con la tecnica del sinonimo spiazzante e della perifrasi: 1) laico ma non laicista (cosa vorrà mai dire? Si consiglia di consultare un buon dizionario); 2) europeo nel rispetto dell'introncabile asse atlantico (quindi non europeista); 3) economia sociale di mercato et voilà.
Senza intrattenermi in una fastidiosa logomachia, dico subito quanto siano ancora forti i debiti lessicali che gli aennini hanno nei confronti dell'oratoria Mussoliniana e D'Annunziana. La sinistra fortunatamente si è affrancata dal codificato linguaggio burocratico dei soviet.
Durante il referendum sulla legge 40, la granitica coesione del partito di via della scrofa ha accusato qualche crepa allarmante: Fini dichiarò apertamente che avrebbe risposto con quattro si e un no ai quesiti del referndum abrogativo, ma la sua decisione passò come un parere personale, qualcosa su cui era impossibile sindacare, difatti colonnelli e vicari si apprestarono subito a praticare la via della libertà di coscienza, della discrezionalità su temi inerenti l'etica e la morale.
Il leader della nuova destra si affermò come nuovo personaggio destinato fare il concorrente del cavaliere e disposto a dialogare coi settori progressisti del paese, almeno sopra alcuni argomenti, affidandosi al decisionismo che manca assolutamente a Berlusconi nelle occasioni in cui si tratta di dover scontentare qualcuno. Ma è veramente tutto oro quello che luccica? E veramente tutto meraviglioso e perfetto per Fini? No, ben presto si evince che il bravo Gianfranco è alla guida di una corrente anzi di un correntone riformatore patentemente minoritario, e il poveraccio si destreggia funambolicamente tra "colpi di frusta e allegri stratagemmi" allo scopo di sottomettere l'ala biliosa e renitente del partito, quella destra sociale capitanata dal duo Storace-Alemanno, lo scirocco perturbatore tanto per intenderci.
Inevitabile che Fini si trovi davanti ad un aut aut amletico: proseguire lo slancio riformatore o cedere ai tradizionalisti?
Eppure a pensarci bene Fini è una personalità riflessiva, sul voto agli immigrati ha parlato in tono possibilistico citando un futuro poco prossimo, dove ha potuto urtare la suscettibilità dei conservatori? Gesti come i si al referendum e la formale abiura del fascismo, con il viaggio e la riconciliazione con il popolo ebraico, sono gia qualcosa di scandaloso agli occhi di un Tremaglia, pensare alle reazioni che accoglierebbero un'altra apertura al riformismo, che non è solo un problema interno della sinistra e che la destra sottolinea immancabilmente come se la sua transizione democratica fosse gia acquisita e sugellata dai fatti.
Come si regolerà Fini? Lascierà il partito per trasferirsi nell'UDC o in Forza Italia come preconizzato da Vittorio Feltri? Continuerà in seno ad AN rischiando la perdita di cospicue fette di elettorato? Fonderà un nuovo soggetto politico che recida recisamente i legami col post e neofascismo? Oppure spetterà il soccorso del tempo, soccorso che potrebbe personificarsi nelle sembianze del partito unico della casa delle libertà?
Il coraggio non gli manca di certo, non mancava neanche a chi, prima di lui, ha dovuto condurre la destra cattolica e franchista verso una sincera conversione democratica, José Maria Aznar.

Filippo Barbera

mercoledì 10 gennaio 2007

Le uova del drago Buttafuoco

Godibile il dizionario redatto da Pietrangelo Buttafuoco sugli uomini "illustri e meschini", ma siamo pur sempre sul versante Michele Serra "de destra".
Buttafuoco è un grande giornalista innanzitutto perchè rifiuta quello che è il diserbante per il talento di chi lavora per la carta stampata: il politically correct.
Cresciuto a pane e fascismo proletario, sociale, intelligente; siciliano arguto e mordace, ingegnoso, moderno e arcaico allo stesso tempo, galantuomo e mascalzone, qualunquista in fatto di morale forte e civista quando si tratta di lavare l'onta del disonore alla "pupa" Sicilia, onore nettato puntualmente e liberalisticamente coll'inchiostro e la provocazione di un conformista.
Quel gusto per il dialetto inserito a piccole dosi, sussurrato quasi tra le pieghe della divina lingua di Dante Alighieri e Alessandro Manzoni, al quale conferisce un tono rude, scanzonato e surreale.
Prezioso strumento di coscienza critica per la sinistra italiana (la quale li può comodamente enumerare sulle dita di una mano), curiosamente piazzato nelle trincee nemiche, banditore di nessuna parrocchia politica, di nessun'uomo della provvidenza, di nessuna maschera grottesca sull'esempio di Giordano Bruno Guerri, anarchico anticlericale a parole; esegeta inattendibile del duce a fatti, con l'inattendibilità connaturata a chi esalta e rivendica un passato che non gli appartiene, tale e quale all'emerita categoria degli spostati di casa nostra(Adornato, Guzzanti, Rossella) comunisti ieri, anticomunisti oggi.
Ci ricorda le contraddizioni dei - da sessant'anni a questa parte - sempre buoni, sempre coraggiosi, sempre intelligenti, sempre riflessivi, eternamente impegnati, mai violenti, sempre aggrediti, oltremodo sensibili intellettuali socialcomunisti.
La mafia culturale come la chiamava senza fronzoli Giuseppe Berto, l'intellocrazia di sinistra o di centro o di destra, mangiapretista o filoclericale, rigorosa o spregiudicata, engagé o disengagé, berlingueriani o craxiani.
Schiaffi morali riservati pure a certe degenerazioni televisive, a certi uomini nuovi del buonismo da sacrestia, di marxismo al lattemiele o di fascismo formato famiglia, di divulgatori a corto di spina dorsale, preti casual e idioti matricolati. Guardare a Buttafuoco con simpatia mi è imposibbile giacchè il suo vero mestiere non è il gazzettiere tutto di un pezzo fradicio di ideologia, colmo di preconcetti e rancori bestiali verso gli avversari che si distanziano volentieri dalle sue preferenze in cabina elettorale. Si capisce in un batter d'occhio se abbiamo a che fare con Pietrangelo Buttafuoco da Agira o con lo stinto pagliaccio di turno con la lingua pronta a lanciare stilettate venefiche, tipo Adolfo Urso o Domenico Nania. Uomo troppo colto per aderire in maniera del tutto incondizionata alle aberrazioni del padre padrone Berlusconi; innamorato dell'opera lirica e delle "femmine" al pari di un personaggio sgorgato dalla letteratura e dal teatro del grand siecle (o, per chi dovesse tenere altri gusti, del siglo de oro), lo prefiguriamo già seduto alla tavola di un ricco banchetto cantare ebbro "viva le femmine, viva il buon vino" come il don Giovanni di Mozart e Da Ponte. Sensuale e atipica razza di intellettuale: moralista uscito dalla fucina brancatiana; satiro sensuale formatosi attraverso la lettura della filosofia tedesca (laureato in filosofia). Immune dalla fregola di cimentarsi nelle arene dello scontro politico, in Sicilia fatto di prebende, colpi di lupara e dai frettolosi e frugali "rusta e mancia", versione colorita ma autoctona del rostbeaf anglosassone. L'agape democristiano tradizionale insomma, rituale dove si predetermina la spartizione dei posti e del potere ancora prima che le elezioni abbiano fatto da ancella al destino e al regolare corso democratico.
Parlo molto della trinacria e poco del nostro meritocratico e perciò almeno moralmente di sinistra, capace di dire parole forti in poetica difesa della propria terra, pragmatico e futurista, possibilista che addirittura spiegava scandalosamente la fenomenologia del fascismo, sfuggita ad augusti e austeri professoroni come Galante Garrone e Norberto Bobbio.
Il fascismo è stato un grande movimento di sinistra poichè il populismo idillico e tradizionalista, fortemente improntato all'ordine sociale, è l'elemento che lo accomuna al comunismo oltranzista proprio come il riformismo esangue e vagamente (e opportunisticamente) libertario lo distingue dal succitato massimalismo rossonero. Con buona pace di tutte le nobiltà, per usucapione, di sangue, d'arte, di toga o di quella più smaccatamente romantica: la nobiltà uterina.


Filippo Barbera