giovedì 11 gennaio 2007

Jack London, un lupo metropolitano.

A parte la rigidità di alcuni personaggi canonici, il romanzo Martin Eden è un'interessante e tragico ritratto dell'artista giovane all'americana.

Avete letto per caso Martin Eden, il libro eminentemente autobiografico del grande Jack London?
Bè, ve lo sunteggio io. Cominciamo con una piccola premessa meschina meschina. Chi ricorda in "C'era una volta in america" il giovane Noodles sfogliare nel cesso di un casermone il suddetto romanzo di London? Lasciamo perdere. Un giovane marinaio di fine 800', bello (o almeno irresistibile alle ragazze), dal collo taurino, abbronzato, massiccio, ignorante come una gallina e tuttavia desideroso di imparare le lettere e la filosofia e tante altre cose per poter scrivere le proprie avventure marinaresche e dar sfogo alla sua sterminata fantasia.
E questo l'incipit e, se vogliamo, il leitmotiv del libro, che inizia col protagonista che salva la vita ad un giovane borghese e viene accolto a casa dai genitori di questo, dove conosce la laureanda Ruth Morse, sorella del beneficiario del buon samaritanismo di Martin.
Discutono di cultura: letteratura, filosofia e sapere in generale.
Martin, neofita, crede lontani e irraggiungibili tutti quei libri che scorge nella biblioteca della casa della ragazza.
Accetta il consiglio di lei, iscrivendosi all'università, ma lo studio è lì accademico nel vero senso della parola. Gran professoroni boriosi si prendono gioco di lui non riuscendo ad afferrare e stimare le doti e il genio letterario del ragazzo: un disastro l'esame di storia Americana. Ma lui persevera, vuole un futuro diverso, una posizione, celebrità per se, per Ruth, per la sorella e i nipoti che vivono una vita rispettabile sbarcando faticosamente il lunario.
Va a vivere da solo, scrive e riscrive un pozzo di storie, novelle a iosa, anche alcuni romanzi. Passa attraverso mille esperienze: lavora in una lavasecco in condizioni quasi disumane, collabora da dipendente regolarmente snobbato ad un giornale come scrittore di feuilleton, pratica la più bassa vita da bohemienne, vendendo e ricomprando lanterna, cucinino e abiti al banco dei pegni per sobbarcarsi le spese.
Incontra un filosofo vagabondo e tubercolotico, Brissenden, che lo introduce in una singolare comunità di liberi pensatori lerci e colti e lo incoraggia a proseguire nell'attività di scrittore.
Sperimenta la carità con una donna portoghese madre di una nidiata di figli, l'amore alternativo e frenato con una piccola operaia.
Raggiunge il successo e il denaro, ma a quel punto perde la volontà di
vivere, la stima profonda e autentica della gente. Riflette e matura la convinzione dell'ipocrisia e della grettezza di Ruth e di tutta la razzumaglia borghese, della loro concezione miserabilmente utilitaria della cultura, avversa al demone artistico maledetto e solitario.
Mentore e complice di Martin è Joe, compagno di sventura nell'infernale lavasecco liberatosi dal lavoro e diventato portentoso globe-trotter che vive di elemosina, quasi un Vitangelo Moscarda ribellatosi al capitale, che ha mandato al diavolo il dovere e il lavoro.
L'utopia anarchica è negli Stati Uniti quello che l'utopia socialista è stata per la vecchia Europa.
Rifiutando di costruirsi una vita "borghese" e vuota, impossibilitato a scampare all'appiccicosa notorietà, si imbarca in una nave di crociera.
Una notte stellata lo convince a mettere in atto il piano meditato da tempo. Si lancia dall'obloe della nave e nuota per qualche minuto.
Poi, piano piano, lentamente, si lascia sprofondare e recide ogni legame con la vita e con gli uomini per compenetrare nella natura e contemplare lo spettacolo meraviglioso offerto dai fondali marini notturni. Abbandonatosi al nulla, non sente più niente.
E nell'istante in cui lo viene a sapere, smette di saperlo.
Stupendo.

Filippo Barbera

Nessun commento: