giovedì 11 gennaio 2007

Berto filava

Rientra nel nostro buon senso italico la catalogazione vittoriniana di eterno fascista erogata al buon Giuseppe Berto? Il buon Berto che dopo la morte di un suo illustre lodatore, Ernest Hemingway, portò la barba lunga per un anno intero, in segno di lutto, come recita la costumanza calabrese. La Calabria dei nuovi briganti e della riforma agraria che era stata il teatro del suo primo romanzo neorealista, "Il brigante". Intellettuale o forse anti intellettuale del tempo che vide la morte di questa categoria o censo o ancora specie umana e animale, dalle cui ceneri nacque l'uomo tout court, come ammoniva una famosa massima sessantottina. Berto era detestato o se vogliamo ufemizzare non era amato per il suo provincialismo prima che per le notorie e provocatorie simpatie fasciste. Lo scrittore veneto del resto aveva fatto la guerra con la camicia nera, patinato (ma non sommerso) di ideologia, al contrario di una folta schiera di intellettualoidi grandi e piccini o addirittura venerandi, che si intestardivano a escluderlo dall'olimpo delle lettere, dal parnaso, stanziandolo a praticone del copioso filone della narrativa neorealista. E lui ci moriva d'invidia, si ammalava il fegato, costruiva col fertile seme delle sue elucubrazioni complotti culturali, manie di persecuzione e complessi di inferiorità paranoidi. Almeno in principio.
Con l'andare del tempo si accorse dell'inutilità degli sforzi e della fallacia dei sogni di grandezza che aveva rincorso. Lui era un grande gia dal 1964, anno di quel condensato di ossessioni psicoanalitiche che è "Il male oscuro", se vogliamo pedantemente partire da una solida quanto pleonastica base cronologica. Si è parlato di "bigino freudiano", piccola malignità paternamenete concesso da troppi scrittori psicologicamente affettati, impediti di raggiungere risultati spontanei dalla loro drammatica pienezza di sè, carenti di profondità d'animo e coscienza. Parlatori infiniti e sfiniti, attaccati morbosamente all'amore per la parola che loro mettono sopra l'idea e sopra il pensiero, contrariamente alle raccomandazioni del giovane ma gia sagace Alessandro Verri. Berto è lo zio dei sessantenni di oggi.
Ha fatto la guerra, non del tutto inconsciamente, dalla parte sbagliata, coi perdenti. Dava scandalo sedendo in sinedrio assieme a Evola e Plebe. Era lo zio acculturato nel senso moderno, novecentesco, che riesce a dar corpo alla spazzatura accumulata nel fluire della vita. Mette mano su cose cristallinamente fragili, come l'amore tra padri e figli che non è quella cosa trita e melensa che ci insegna la colorita pubblicità, ma viceversa un nonsochè che scade nell'odio o può essere magari confuso (o soltanto confondersi) con l'odio, scatenando l'eterna incomprensione interpretata dai lealisti come ribellione o mondo scorretto o gioventù bruciata, senza Dio. E dai giovani soventi difesi dai sociologi come la liberazione individuale all'autorità dispotica del/dei genitori/e.
Leggere "Il male oscuro" è utile per quelle persone venute su magari in provincia, formatisi in una temperie culturale che non è la Sorbona nè la chèz verso Guermantes, ma è comunque degna di essere raccontata e vissuta, attraverso la lettura, dai lettori, i quali alla fine si riconosceranno più che lettori e scopriranno nel libro qualcosa oltre le definizioni di bigino e polpettone dagli ingredienti sveviani.

Filippo Barbera

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