martedì 16 gennaio 2007

Il molle-agiato

Rock e lento, nuovo metro di tassonomia qualunquista preconizzato dal qualunquista per antonomasia Adriano Celentano.
Eh si, rieccolo redivivo uscire dalla sua lussuosa spelonca dove se ne sta rintanato come un orso in laborioso letargo 365 giorni su 365; letargo laborioso speso a preparare fantasmagoriche scenografie, duetti e riesumazioni di mummie dell’avanspettacolo e censurati queruli portatori, nell’ordine, di:
1) Audience accompagnata da graveolente tanfo di sarcofago;
2) Polemichetta (molto “etta”) col quale riempire la pseudo programmazione RAI, ramo Talk show.
3) Geremiade infinita della sinistra sulla censura sistematica applicata dall’autoritario (Sudamericano, illiberale ecc.ecc. ) governo Berlusconi e relativa domanda sputtanatrice della destra: <<>>
Dubbio di inciucio D’Alema-Biscione ai tempi della bicamerale.
Faccio notare che per ovvie ragioni di spazio e risapute questioni di umanità ho risparmiato ai lettori il tedio delle cazzate in prima pagina sfornate da una caterva di quotidiani e settimanali; le stupidaggini en plein air di certa satira televisiva falsa e demagogica e tanto altro che non vi sto a dire per ottemperare all’impegno di non annoiarvi preso quattro righe fa.
Dunque,dove eravamo rimasti? Ah si! Ad Adriano Celentano.
Adriano Celentano ritorna a illuminarci col suo irriverente genio, e al suo irriverente genio plaudono in molti e insospettabili perfino.
Vittorio Feltri, in primis, il quale ha reputato sconveniente l’opzione diffamazione + querela, ormai collaudata, e da comare ha cantato schiettamente le lodi al cantautore, dirottando però l’attenzione sull’opportunismo e la furbizia del personaggio (notoriamente equilibrista e capace di clamorosi voltafaccia) più che sul suo dubito orientamento a sinistra.
Insomma, almeno per questa volta Feltri è riuscito a tenersi alla larga dal ruolo di Elliot Ness della situazione che scopre il marcio finanziario celato dietro la presunta immarcescibilità del vip popolare amato da tutti (e, torno a ripeterlo, ha evitato cosi l’ennesimo, lungo cavillo burocratico).
Dalle pagine del “Foglio”, frate Ferrara lo assolve bonariamente, felicitandosi col diretto interessato per il successo ottenuto dal programma (e chi lo avrebbe messo in dubbio?) e complimentandosi per la pacificatoria scelta di ospitare “coloro che tornano dopo una lunga assenza”.
Il ritornante è Michele Santoro, bestia nera di Ferrara, cacciato dalla RAI col beneplacito dell’elefantino; elefantino entusiasmato dalle coreografie del programma, per il quale profonde aggettivi strampalati e rutilanti (tra le tante <<>>, con la Carmen impersonata dalla procace Luisa Ranieri).
Su un punto Celentano è riuscito: mettere d’accordo Giuliano Ferrara e Curzio Maltese, che dalle colonne di “Repubblica” osanna “Rockpolitik” come la <<>>, a dispetto della palesata idiozia degli assunti.
Le reclame poi hanno fatto passare la più falsa delle immagini con cui si potrebbe targare il molleggiato, quella dell’ultimo dei Pasolini (ma, ahi me, di Pasolini ce n’era uno solo!) dell’incontaminato “selvaggio buono” Rousseuiano, a cui è configurabile anche a livello psicosomatico: vedere la faccia scimmiesca del molleggiato, Lombroso lo avrebbe rinchiuso seduta stante in una gabbia per bertucce con tanto di banane e chincaglierie. Purtroppo Celentano di incontaminato ha davvero poco. Ha cavalcato da viscido camaleonte tutte le epoche e tutte le mode, ha fatto propri, risemantizzandoli in chiave qualunquista, gli stilemi dell’ecologismo oltranzista, ha speculato sulla fame nel mondo e sulle varie congiunture economiche, è stato bravissimo, in tempi non sospetti, a condannare tutto e tutti: la televisione ai tempi di “Svalutation” con l’allusivo invito a spegnergliela davanti alla faccia; la donazione degli organi umani con l’assurdo grido d’allarme da incubo Orwelliano che condannava la presunta arbitrarietà della procedura: “doniamo gli organi? enbè, mettiamo che domani mi sveglio senza una gamba!” .
L’irritante costume, ormai invalso ovunque, della polemica ad ogni costo, la provocazione per la provocazione a livelli di gratuita ovvietà e irraggiungibile insensibilità verso gli spettatori, tutto piegato al personale traguardo mondano del “far parlare di sé”, altro che meditativa intelligenza al servizio del cittadino.


Barbera Filippo

giovedì 11 gennaio 2007

Bocca taci!

Rimescolando la storia della prima repubblica, può capitarci di incontrare il Giorgio Bocca investigatore che indaga, occhiali scuri, taccuino, penna e pistola nel fodero, sui retroscena della strage di piazza fontana, pervaso da pessimistico e sarcastico odio anarchico verso la polizia. Rettifico: verso i capoccia della polizia.
Entrato in una scuola di periferia della mole, e siamo gia nel versante Philip Marlowe o del suo corrispettivo Siciliano incarnato da Salvo Montalbano, per tenervi un fervorino sulla resistenza, Bocca si vede scacciato in malo modo dal lancio di frutta e verdura e mandato americanamente a quel paese: “vaffanculo nonno!”.
La preside lo crede un successone e aiuta l’ex partigiano a tirarsi fuori da un sicuro linciaggio. Quegli immigrati terroni non avevano mai sentito parlare di resistenza, non erano ancora nati ed erano cresciuti nel mito del bandito Giuliano, trasfigurato dalla credulità popolare in una sorta di Robin Hood o Zorro locale.
Bocca continua la monotona predica puntando l’indice sull’etica del malcostume perseguita dagli Italiani (figli indegni, in qualche modo, di Michelangelo e Leonardo), su preciso assist dei corrotti governanti.
Benché apprezzi i buoni propositi del giornalista, frutto di una viscerale e anche sincera e accorata indignazione di un figlio della resistenza, le reprimende e le escandescenze da sanculotto finiscono presto per stancare e far circolare l’infausto provirus del qualunquismo, abile a inserirsi sotto la cromatura del civismo.
Cerchiamo di finirla una buona volta con il malsano dopolavoro e dopopranzo dello sparare a zero sulle istituzioni, schifose, della prima, seconda o non so che diavolo, repubblica; troppe cartoline e storielline e facce fotogeniche ci offre la politica in questo presente, con un giornalismo diviso in fazioni ed estraneo al senso critico; ma non è coi de profundis ne col roba da chiodi generalizzato ed esteso a levante e a ponente che riusciremo a migliorare e a costruire qualcosa.
Il dissociato che scrive per la Stampa e per il Corsera è uno con una personale visione del paese e del mondo che può essere condivisa o respinta, ma non è e non può essere sistematicamente tacciato di collaborazionismo e scarsa sensibilità al delicato argomento dell’informazione, libera informazione, italiana.
Riccardo Barenghi, Piero Sansonetti, Adriano Sofri e Lucia Annunziata hanno avuto i loro bei dispiaceri dagli anomali mass media italiani, perché chiamarli pure imbelli o “terzisti” (che non sono) con tanto di perfide virgolette?

Filippo Barbera

Il lungo addio

La casa delle libertà tributa un lungo applauso a Silvio Berlusconi, finalmente presente in aula. E l'immagine simbolica del nuovo medioevo ventilato trentanni fa dal professor Umberto Eco. Il pamphlet del semiologo esce dunque dalla casualità cui sembrava inchiodato, una casualità psicotica di uno fissato col medioevo e che sfrutta ogni occasione per dimostrare come ce l'abbia a morte coi mass media. Questo applauso da claque, lungo e spropositato, pensato e attuato unicamente per ostare la parola al presidente del consiglio Romano Prodi, descrive il perdurare della ademocraticità della coalizione di centrodestra. Coloro che si ritengono ragionevoli in quella bolgia scomposta farebbero bene ad accelerare il processo di transizione della leadership, proprio come accadde quindici anni fa ai paesi dell'est europeo svincolatisi dal potere sovietico. Un applauso totalizzante che stava a significare: "il nostro capo è lui, noi apparteniamo a lui, non siamo niente senza di lui, moriremo con lui" (?). La libertà democratica ha fatto il suo diligente corso estromettendo Silvio Berlusconi dall'incarico di presidente del consiglio di tutti gli italiani, ma per una schiacciante maggioranza di senatori e deputati il capo resta e resterà LUI, al di là dell'esitante ma legale responso delle urne.
Così la pensano una buona porzione di italiani, impauriti dai provvedimenti del nuovo governo, nei confronti del quale continuano a mantenere riservatezza, diffidenza, rassegnato pessimismo. Parecchi prendono le sembianze di agitatori denunciando l'aumento inaccetabile delle tasse, i provvedimenti vendicativi e intimidatori nei riguardi di tassisti, farmacisti, avvocati e altre categorie legate elettoralmente alla destra. Molti di questi inopinabili agit-prop di destra sono innocenti vittime del grido di allarme terroristico e sconsiderato lanciato da Berlusconi e da altri conestabili della Cdl. La strategia del nemico alle porte, del fare terra bruciata rifiutandosi di pagare le imposte con la renitenza fiscale, nuoce specialmente alle fascie sociali che questo centrodestra fuorilegge dovrebbe tutelare. Berlusconi è il più grande errore della destra italiana moderata e la più grande opportunità per quella estrema, antisociale ed eversiva. Ha corrotto persino i missini e i centristi conservatori anche se non completamente; certo ha inferto un duro colpo alla attendibilità di tali formazioni politiche.
Il consiglio spassionato e prezioso che posso io uomo di sinistra dare è quello di disfarsi di questo ingombrante fardello. L'esperimento cesarista è fallito. Casini si persuada che i partiti costituenti la Cdl non possono essere ricondotti nè alla logica delle correnti interne della balena bianca nè alle tattiche ricattatorie e condominiali praticate negl'anni del pentapartito o del centrosinistra del boom. Va aperto poi un serio e impegnativo dibattito sul riformismo della destra, argomento che non travaglia mica la sola sinistra, dilaniata e dissociata tra i nostalgici di Fidel e gli avanguardisti del partito democratico.
Se da questa ipotetica discussione intestina uscirà in maggioranza la voce riformismo e modernità, allora sarà conveniente tagliare i ponti una volta per tutte con la Lega e con quanti non possono fare a meno della collaborazione (che a quel punto muterebbe in coabitazione forzata, sempre se gia non lo è) con l'asse del nord. Un bel congresso plenario, che scuota fin dalle fondamenta il moderatismo conservatore dello stivale, traghettandolo verso una spiaggia che gli permetta di condurre una serena opposizione. Ora come ora, nelle condizioni d'oggigiorno, ribaltone o meno, non andreste da nessuna parte.

Filippo Barbera

Jack London, un lupo metropolitano.

A parte la rigidità di alcuni personaggi canonici, il romanzo Martin Eden è un'interessante e tragico ritratto dell'artista giovane all'americana.

Avete letto per caso Martin Eden, il libro eminentemente autobiografico del grande Jack London?
Bè, ve lo sunteggio io. Cominciamo con una piccola premessa meschina meschina. Chi ricorda in "C'era una volta in america" il giovane Noodles sfogliare nel cesso di un casermone il suddetto romanzo di London? Lasciamo perdere. Un giovane marinaio di fine 800', bello (o almeno irresistibile alle ragazze), dal collo taurino, abbronzato, massiccio, ignorante come una gallina e tuttavia desideroso di imparare le lettere e la filosofia e tante altre cose per poter scrivere le proprie avventure marinaresche e dar sfogo alla sua sterminata fantasia.
E questo l'incipit e, se vogliamo, il leitmotiv del libro, che inizia col protagonista che salva la vita ad un giovane borghese e viene accolto a casa dai genitori di questo, dove conosce la laureanda Ruth Morse, sorella del beneficiario del buon samaritanismo di Martin.
Discutono di cultura: letteratura, filosofia e sapere in generale.
Martin, neofita, crede lontani e irraggiungibili tutti quei libri che scorge nella biblioteca della casa della ragazza.
Accetta il consiglio di lei, iscrivendosi all'università, ma lo studio è lì accademico nel vero senso della parola. Gran professoroni boriosi si prendono gioco di lui non riuscendo ad afferrare e stimare le doti e il genio letterario del ragazzo: un disastro l'esame di storia Americana. Ma lui persevera, vuole un futuro diverso, una posizione, celebrità per se, per Ruth, per la sorella e i nipoti che vivono una vita rispettabile sbarcando faticosamente il lunario.
Va a vivere da solo, scrive e riscrive un pozzo di storie, novelle a iosa, anche alcuni romanzi. Passa attraverso mille esperienze: lavora in una lavasecco in condizioni quasi disumane, collabora da dipendente regolarmente snobbato ad un giornale come scrittore di feuilleton, pratica la più bassa vita da bohemienne, vendendo e ricomprando lanterna, cucinino e abiti al banco dei pegni per sobbarcarsi le spese.
Incontra un filosofo vagabondo e tubercolotico, Brissenden, che lo introduce in una singolare comunità di liberi pensatori lerci e colti e lo incoraggia a proseguire nell'attività di scrittore.
Sperimenta la carità con una donna portoghese madre di una nidiata di figli, l'amore alternativo e frenato con una piccola operaia.
Raggiunge il successo e il denaro, ma a quel punto perde la volontà di
vivere, la stima profonda e autentica della gente. Riflette e matura la convinzione dell'ipocrisia e della grettezza di Ruth e di tutta la razzumaglia borghese, della loro concezione miserabilmente utilitaria della cultura, avversa al demone artistico maledetto e solitario.
Mentore e complice di Martin è Joe, compagno di sventura nell'infernale lavasecco liberatosi dal lavoro e diventato portentoso globe-trotter che vive di elemosina, quasi un Vitangelo Moscarda ribellatosi al capitale, che ha mandato al diavolo il dovere e il lavoro.
L'utopia anarchica è negli Stati Uniti quello che l'utopia socialista è stata per la vecchia Europa.
Rifiutando di costruirsi una vita "borghese" e vuota, impossibilitato a scampare all'appiccicosa notorietà, si imbarca in una nave di crociera.
Una notte stellata lo convince a mettere in atto il piano meditato da tempo. Si lancia dall'obloe della nave e nuota per qualche minuto.
Poi, piano piano, lentamente, si lascia sprofondare e recide ogni legame con la vita e con gli uomini per compenetrare nella natura e contemplare lo spettacolo meraviglioso offerto dai fondali marini notturni. Abbandonatosi al nulla, non sente più niente.
E nell'istante in cui lo viene a sapere, smette di saperlo.
Stupendo.

Filippo Barbera

Di Terzani e della Fallaci

Non possiamo debellare il male del terrorismo senza eliminare il male che è nel grembo dell'occidente: Tiziano Terzani, allievo di Ghandi e Buddha dà una grande lezione di stile alla valchiria Oriana Fallaci.
Usando l'intelligenza e la soave contemplazione degli orientali anzichè la vorticosa, nevrotica e corriva stupidaggine consequenziaria occidentale. Elmetto e parabellum vanno bene ai gonzi che travestono il problema dei tempi (l'imponderato scontro di civiltà e di religioni) con il confortevole e comodo costume della tragedia greca, con tanto di sacerdotesse, responsi e visioni di prescenza divinatoria estratte dalle vive viscere di animali. Uno stile e un gusto macabro come ogni dottrina ingessata, come ogni mortifero credo ideologico che si crede al di sopra dell'uomo e della ragione solo perchè la temperie politica internazionale è di merda e in tutto questo casino è ritenuto saggio scordarsi il relativismo, essenza nascosta dello spirito democratico e non solo rilassante cacadubbismo.
Terzani è un monaco guerriero nel senso dello spirito; anacoretico ed eretico, paziente e tollerante anche nelle critiche spietate, che sono poi il comodo domicilio di colui che ha capito poco o nulla, che è rimasto basito e travolto dagli eventi senza aver avuto tempo e perizia di esaminare la faccenda a sangue e mente fredda. L'uomo di mondo fattosi uomo della strada, defilatosi da ogni impegno e uscito in tempo dalla casa dell'ideologia, in tempi non sospetti, quando ancora il tetto reggeva in tutta la sua solidità.
Per farla breve Terzani si aggrappa Leopardianamente allo scoglio della ragione, del relativismo, dell'utile e rivelatoria speculazione filosofica e storica. Fa degli esempi elementari, daccordo, ma su cui nessuno degli storiografi si è seriamente soffermato, occupato a stilare cifre statistiche fredde come ghiaccio, sancire l'ascesa o la caduta di grandi potenze, celebrare il declino dell'occidente. Dimenticando il lato delle conseguenze etiche e morali del colonialismo, delle ferite e dei virus, insomma la nemesi storica che potrebbe coglierci in vecchiaia, oramai santi e buoni, democratici e altruisti verso il resto dell'umanità che ieri c'è servita da risorsa umana per lo sviluppo della nostra civiltà.
Come direbbe un prof. di storia economica ai suoi allievi, come diceva Himmler alle sue SS.

Filippo Barbera

Arruso.

Pierpaolo Pasolini, personaggio a volte conformista a volte anti-, al tempo stesso comunista eretico e ortodosso, provocatore e moderatore, innovatore, sempre, nel suo poliedrico magistero artistico. Progressista filosoficamente, tradizionalista nella dialettica, in buona parte antiradicale creduto criptoradicale dai compagni comunisti e universalmente spacciato per pezzo pregiato della gioielleria radicale dal troppo verde per ricordare Daniele Capezzone. Un pezzo pregiato ed eccentrico, un poeta di fede marxista cosciente del paradosso
della comunicazione in cui viveva fino all'autodenuncia. Un intellettuale mai soddisfatto e mai sereno, sempre alla ricerca della libertà nella libertà, come consigliava Toqueville (certo non uno dei mentori di Pasolini) a tutti gli spiriti degni della democrazia.
Sempre in trincea a denunciare le mostruosità della società e a trovare un tratto negativo nei fenomeni che polarizzavano l'attenzione e l'entusiasmo dei più. Memorabile "comizi d'amore", documentario del 1964 sulle abitudini amorose degli italiani che cambiano, capace di schiantare una vanesia Oriana Fallaci, mai così ottimista e libertaria coi giovani che andavano dalla fabbrica alla pista da ballo in 500 e fregandosene della lotta di classe. Pronta la risposta di Pasolini: <<>>. Oggi Oriana sembra avere abbandonato le magnifiche sorti e progressive per iniziarsi come Leopardi, ma con meno finezza e discrezione, al pessimismo cosmico. Un costante volersi distinguere e voler praticare la via del paradosso democratico, con eleganza e verve dissacrante congeniale ad un liberale come lui, degno collega di Wilde e Shaw. Lungimirante e acuto, omosessuale coi sensi di colpa derivanti dal suo essere cattolico e borghese; difensore (da ateo marxista) dell'essenza del cristianesimo, tanto da dedicare alla figura di Cristo
un film bellissimo "il vangelo secondo Matteo" e un piccolo ritratto, quella "ricotta" con Orson Welles nei panni di un regista americano marxista che stigmatizza la società italiana, e col sottoproletario affamato che muore d'indigestione in seguito a un pasto luculliano passatogli dalla troupe. Per divertimento ovviamente, acuta metafora del boom economico e del benessere a portata di tutti, strumento surrettizio del potere usato per imbonire la massa e continuare indisturbato il suo perverso esercizio. Temi onnipresenti nell'arte pasoliniana, dalla fase neorealista al periodo surrealista culminato in "Salò". E pensare che qualcuno l'ha definito un personaggio "tecnicamente reazionario" (Giuliano Ferrara) solamente perchè aveva consigliato di spegnere la televisione, luogo della menzogna sistematica, da ottimo sociologo.
Altri, nella eco che ha accompagnato i trent'anni dal suo brutale assassinio, lo hanno definito semplicemente per quello che era (tra l'altro): un poeta. Lo disse Bernardo Bertolucci, anch'egli poeta e figlio del poeta Attilio, il giorno del funerale di Pasolini.

Filippo Barbera

Tanto rumore per nulla.

Mesi fa si dibatteva a proposito della figura si Joseph Stalin, uomo politico e tiranno a seconda delle angolazioni da cui lo si osserva, su cui la storiografia discute da decenni. Luciano Canfora, esimio storico di stretta osservanza marxista, non si perita di paragonarlo addirittura a Pericle, l’eroe Ateniese che si avviò sul viale del tramonto subendo un processo con l’accusa di peculato; una fine lontana da quella del “batjuska” giustiziere dei nazisti, pianto da milioni di russi nel giorno del suo funerale. Tra i punti di maggiore complessità su cui gravita tutta la querelle, segnalo la bontà o meno del patto Ribbentrop-Molotov, accordo di non aggressione, brillante mossa per tergiversare operosamente e mettere al riparo la poderosa industria sovietica (smontandola da Mosca, Leningrado e Stalingrado e rimontandola poi oltre gli Urali) dal selvaggio imperialismo di Hitler, considerato da molti come la prova tangibile del precario equilibrio psicofisico del dittatore sovietico, della sua illimitata e perversa tirannide sanguinaria e masochista immune dalle preoccupazioni per la sorte dei polacchi e degli stessi Russi.
Comprendo la miriade di banalità sfornate da quanti fraternizzano con questa strampalata idea della sub asse Mosca - Berlino: <<>> ecc., senza escludere le improprie diramazioni di una complessiva presa di posizione antimarxista; attenzione, non antibolscevica, ma antimarxista, poiché è da lì, ab imis, che provengono i guai.
Parrebbe gia una castroneria identificare il bolscevismo col marxismo, che equivale a comparare l’ecstasi col caffè, figuriamoci immaginare una comunella o sfiorata comunella tra Hitler e Stalin.
La critica alle finalità escatologiche del marxismo, cioè la rivoluzione, il ribaltamento delle classi e la dittatura del proletariato come unica soluzione valida ai contrasti stridenti del sistema capitalista, inizia nella seconda metà dell’800’ con la scuola economica tedesca, i “socialisti della cattedra”, impegnati a dimostrare la verità marxiste e avanzare proposte di interventi statali riformatori, confutando ed enucleando gli aspetti dottrinari e rivoluzionari, inapplicabili senza un sovvertimento delle istituzioni liberali e democratiche di una nazione.
Questa vuole essere solo una modesta nota a margine, essenziale per inquadrare il nodo centrale del tema, che è Stalin e il bolscevismo e non il comunismo e l’ideologia marxista in generale o peggio il Marx economico, molto distante e molto discutibile dal Marx filosofo, genitore di una coscienza operaia, di quell’immane stereotipo di filosofo e critico impegnato ad impostare il comportamento, lo stile di vita, le letture, i film e lo sport di un proletariato indifferente, come in “uccellacci e uccellini“, scremando ciò che è (o può apparire all’intellighenzia sovietica col parabellum spianato) incline ad una estetica e ad una etica borghesi. Non fu Marx ad insegnare ai russi di denunciare i propri vicini di casa.
Detto ciò, se parliamo di tirannide o atrocità un raffronto tra i totalitarismi nazista e sovietico (non comunista!) è senz’altro possibile, ma se ragioniamo col senno del poi di un sedicente accordo per stritolare la Polonia ed il liberalcapitalismo occidentale ecco che ogni tentativo di giustapporre i due dittatori diventa inaccettabile, e inapplicabile ogni tipo di paragone. I morti prodotti dai lager poggiavano su di una delirante teoria pseudo scientifica antropologica, la supposta superiorità della razza ariana; i morti dei gulag su di un’altrettanto stupida tesi, inerente l’ideologia, le classi sociali e via elencando.
La stessa motivazione, in ultima istanza, per cui furono trucidati centinaia di migliaia di cittadini argentini, cileni, boliviani, cubani da feroci regimi militari telecomandati dai capoccia di Washington.
Gettati in pasto agli squali, fucilati in massa negli stadi, luogo canonico della tradizionale gioia di vivere dei sudamericani.
Altra polemica quella di vietare l’esposizione in pubblico della bandiera rossa con falce e martello per rispetto verso quei paesi dell’est europeo da poco entrati nella UE. Rendiamoci conto che una simile decisione seppellirebbe anni e anni di lotte dei lavoratori di tutto il mondo: la bandiera rossa trapuntata di falce e martello è stato il vessillo della speranza di un futuro migliore per milioni di operai, contadini e minatori angariati da franchigie di innumerevoli specie.
L’operaio francese, il contadino cinese, il servo della gleba russo (o l’anima?), il “cafone” dell’Italia centro meridionale, il minatore peruviano hanno avuto, per intere generazioni, una storia diversa da raccontare ai nipotini rispetto a quella del lavoratore polacco, ceco, ungherese, bulgaro, romeno.
Rispetto verso quanti hanno lottato per la libertà e la giustizia per vedere riconosciuto il proprio sudore, sempre e comunque, sia contro l’armata rossa o la CIA , sia contro i gendarmi di Bava Beccaris. Sotto qualunque bandiera: è una questione di umanità, non di araldica politica.

Filippo Barbera.

Berto filava

Rientra nel nostro buon senso italico la catalogazione vittoriniana di eterno fascista erogata al buon Giuseppe Berto? Il buon Berto che dopo la morte di un suo illustre lodatore, Ernest Hemingway, portò la barba lunga per un anno intero, in segno di lutto, come recita la costumanza calabrese. La Calabria dei nuovi briganti e della riforma agraria che era stata il teatro del suo primo romanzo neorealista, "Il brigante". Intellettuale o forse anti intellettuale del tempo che vide la morte di questa categoria o censo o ancora specie umana e animale, dalle cui ceneri nacque l'uomo tout court, come ammoniva una famosa massima sessantottina. Berto era detestato o se vogliamo ufemizzare non era amato per il suo provincialismo prima che per le notorie e provocatorie simpatie fasciste. Lo scrittore veneto del resto aveva fatto la guerra con la camicia nera, patinato (ma non sommerso) di ideologia, al contrario di una folta schiera di intellettualoidi grandi e piccini o addirittura venerandi, che si intestardivano a escluderlo dall'olimpo delle lettere, dal parnaso, stanziandolo a praticone del copioso filone della narrativa neorealista. E lui ci moriva d'invidia, si ammalava il fegato, costruiva col fertile seme delle sue elucubrazioni complotti culturali, manie di persecuzione e complessi di inferiorità paranoidi. Almeno in principio.
Con l'andare del tempo si accorse dell'inutilità degli sforzi e della fallacia dei sogni di grandezza che aveva rincorso. Lui era un grande gia dal 1964, anno di quel condensato di ossessioni psicoanalitiche che è "Il male oscuro", se vogliamo pedantemente partire da una solida quanto pleonastica base cronologica. Si è parlato di "bigino freudiano", piccola malignità paternamenete concesso da troppi scrittori psicologicamente affettati, impediti di raggiungere risultati spontanei dalla loro drammatica pienezza di sè, carenti di profondità d'animo e coscienza. Parlatori infiniti e sfiniti, attaccati morbosamente all'amore per la parola che loro mettono sopra l'idea e sopra il pensiero, contrariamente alle raccomandazioni del giovane ma gia sagace Alessandro Verri. Berto è lo zio dei sessantenni di oggi.
Ha fatto la guerra, non del tutto inconsciamente, dalla parte sbagliata, coi perdenti. Dava scandalo sedendo in sinedrio assieme a Evola e Plebe. Era lo zio acculturato nel senso moderno, novecentesco, che riesce a dar corpo alla spazzatura accumulata nel fluire della vita. Mette mano su cose cristallinamente fragili, come l'amore tra padri e figli che non è quella cosa trita e melensa che ci insegna la colorita pubblicità, ma viceversa un nonsochè che scade nell'odio o può essere magari confuso (o soltanto confondersi) con l'odio, scatenando l'eterna incomprensione interpretata dai lealisti come ribellione o mondo scorretto o gioventù bruciata, senza Dio. E dai giovani soventi difesi dai sociologi come la liberazione individuale all'autorità dispotica del/dei genitori/e.
Leggere "Il male oscuro" è utile per quelle persone venute su magari in provincia, formatisi in una temperie culturale che non è la Sorbona nè la chèz verso Guermantes, ma è comunque degna di essere raccontata e vissuta, attraverso la lettura, dai lettori, i quali alla fine si riconosceranno più che lettori e scopriranno nel libro qualcosa oltre le definizioni di bigino e polpettone dagli ingredienti sveviani.

Filippo Barbera

Guia Soncini e i signornò

Vedo che molti blogger si dilettano a sfottere l'ex recensionista del Foglio Guia Soncini, la tipa nata per trovare il difetto nascosto ai vip mondani e politici, il fondotinta appiccicaticcio, la sniffata di troppo, la scappatella ferragostana, il capo firmato sfoggiato alla marcia di Assisi. E una razza di elzeviristi ibrida, costituita da eterni rimandati agli esami di giornalismo, di sfigati che scimmiottano i veri grandi in questo ramo del giornalismo.
Il maggior difetto di Guia Soncini sta nel disprezzare le regole della buona educazione e della gentilezza, vitali nell'elzevirista, che la fanno costantemente assomigliare ad una casalinga disperata che litiga col macellaio per un conto troppo salato.
Quel tono incazzato e perentorio, ostile alla piaggeria che si deve essenzialmente instaurare tra il divo puro e non taroccato e il puro giornalista di razza nel momento dell'intervista, fra un tè e l'altro, fra pasticcini e vecchi cimeli, nello stile dei maestri come Roberto Gervaso, antipatico e colto quasi quanto Mughini, o del vegliardo Indro Montanelli, che modestamente confessava i segreti del mestiere, di come disbrigasse le interviste con "Quattro chiacchiere e un paio di immaginose invenzioni", alla maniera dei grandi scrittori di feuilleton divisi tra gala penna e calamaio.
Questa piccola aggressiva dal visetto pulito, battagliera e tagliente sui temi che riguardano la donna, stonata nel momento di premiare la tv di qualità, spaesata dinanzi al genio, rancorosa al cospetto del disappunto altrui, gioca a fare la Oriana Fallaci di provincia provocatoria e sputtanante, ma il gioco non le regge e l'impalcatura viene giù subito. Appare in tutta la sua trascurabile insignificanza, brucia il fatto che scrive per quotidiani e settimanali sbagliati, dove non è azzecca neanche mezza infuriandosi e schizzando fango e veleno sui poveri lettori che osano inviargli una lettera solo un pò rimostrante. Cestinata unitamente alla montagna di scartoffie che scrive da quel Foglio, questa casafamiglia ribollente di geni in sinecura, giubilati, che brucano lo scibile convinti di servire e di essere seguiti da una massa ben più imponente di quella spenta e debilitante mini-orda di snob scocciati dalla società ma che non vogliono cambiare, limitandosi a fare chiasso e confusione intorno alla minima quisquilia del tal filosofo o del tal antropologo, come se la gente fatta di carne e ossa e non di spugna e plastica e spazzatura come loro consultasse Leo Strauss o gli aforismi di Ratzinger o Cervantes prima di decidere se, con chi, come e quando avere un figlio. Basta, mi accorgo di aver introiettato lo stile della Soncini e di essermi sfogato abbastanza. Anche io sono un pessimo elzeviro che sa solo sparare a zero su travet della carta stampata impagliati.

Barbera Filippo

Neo Gollismo all'italiana

L'idea perseguita da AN di un partito unico di ispirazione neo Gollista, in sincrono con la vecchia DC ripescata da Rotondi, è la prova limpida della carenza propositiva della politica di casa nostra. La prova del nove sulla non originalità che investe la destra in un momento cruciale della sua storia.
Le ipotesi offerte dalla rosa sono: un partito liberale neoliberista Reaganiano, subito scartato, primo perchè è dal 1994 che Berlusconi definisce tale la sua creatura senza decidersi a passare ai fatti concreti; secondo, una ricetta economica all'insegna delle liberalizzazioni incontrerebbe non pochi scogli nel centrodestra, a partire da Alemanno per finire a Follini passando per Calderoli.
Lo si è visto in questi quattro anni caratterizzati da una politica economica prevalentemente protezionista, statalista e corporativista diretta dall'asse del nord Tremonti - Lega, lillipuziani patetici contro il Gulliver Cinese. Muti gli ultraliberisti Sacconi e Brunetta.
Quali sono allo stato attuale le tre probabilità coltivate da AN? Come abbiamo sinteticamento dimostrato, è meglio stornare da qualsiasi progetto liberaldemocratico all'americana, anche a causa di sacrosanti fattori antropologici. Non corre buon sangue tra l'aulica tradizione anglosassone conservatrice e l'inclassificabile reazionarismo latino. Dovessimo fare un paragone coi venti avremmo il ponente monarchico, che ha usato la fedeltà alla repubblica solo come bandiera di comodo; il levante di Alessandra Mussolini, brava a far valere la forza suggestiva del patronimico e la bonaccia Finiana insidiata dallo scirocco della destra sociale Alemanno - Storace che gli addebita una metamorfosi democristiana. Accusa sottoscritta anche dal vento di levante, con la pimpante Mussolini che (ultimamente batte il tamburo con la disobbedienza civile e il libertarismo di destra ostile a "froci e partitocrazia") rimarca la funesta opera finiana: ha ridotto la povera fiamma in un moccolo consunto. Il ponente monarchico ha una storia anche se e merita di essere trattato di conseguenza, a parte.
La fedeltà alla monarchia sembra giocare un ruolo di primo piano nella trasfigurazione di AN da destra repubblicana del premierato fortissimo a destra convenzionale, da target europeo, con un quid da non sottovalutare, appunto, di ascendenze monarchiche. Ma la simpatia profusa dai nostalgici, con atti a volte discutibili e violenti, in polemica con l'autorità repubblicana, è insufficiente a salvare una casata screditata e castrata politicamente, che da occasione di far parlare di se solo unicamente in occasioni di nozze, serate in società e pranzi di gala dove volano cazzotti e scappano colpi di fucile.
L'imbarazzo è quasi generale per tarsferirsi e dico quasi perchè c'è sempre chi è disposto a fare il giapponese della jungla, nella fattispecie il principe Ruspoli, maestro di bon ton a porta a porta, quando persino Giuseppe Consolo, vestale monarchico e pluri imparentato con diverse famiglie patrizie (la sua gentil signora è una Romanoff), è perfettamente al corrente del basso profilo istituzionale e umano del clan Savoia.
Il modus vivendi a proposito della struttura del partito, potrebbe risiedere in una formazione politica di matrice gollista, latina e mediterranea come temperamento e valori, in linea con certi spiriti focosi ed energumeni che bivaccano all'interno di AN. Tracciato il solco si passa ad alterare il non certo brillante archetipo francese, giocando il gioco dei sinonimi e dei contrari dal quale non possono esimersi quanti vogliono rinnovare un partito che conta tarscorsi poco commendevoli.
La tattica speciosa poi, sembra fatta apposta per l'umore da moderato sforzato e sibillino di Gianfranco Fini.
E arrivato il momento di tentare di redigere una virtuale carta dei valori, uno specimen dell'indirizzo programmatico della destra postfascista scritto, manco a dirlo, con la tecnica del sinonimo spiazzante e della perifrasi: 1) laico ma non laicista (cosa vorrà mai dire? Si consiglia di consultare un buon dizionario); 2) europeo nel rispetto dell'introncabile asse atlantico (quindi non europeista); 3) economia sociale di mercato et voilà.
Senza intrattenermi in una fastidiosa logomachia, dico subito quanto siano ancora forti i debiti lessicali che gli aennini hanno nei confronti dell'oratoria Mussoliniana e D'Annunziana. La sinistra fortunatamente si è affrancata dal codificato linguaggio burocratico dei soviet.
Durante il referendum sulla legge 40, la granitica coesione del partito di via della scrofa ha accusato qualche crepa allarmante: Fini dichiarò apertamente che avrebbe risposto con quattro si e un no ai quesiti del referndum abrogativo, ma la sua decisione passò come un parere personale, qualcosa su cui era impossibile sindacare, difatti colonnelli e vicari si apprestarono subito a praticare la via della libertà di coscienza, della discrezionalità su temi inerenti l'etica e la morale.
Il leader della nuova destra si affermò come nuovo personaggio destinato fare il concorrente del cavaliere e disposto a dialogare coi settori progressisti del paese, almeno sopra alcuni argomenti, affidandosi al decisionismo che manca assolutamente a Berlusconi nelle occasioni in cui si tratta di dover scontentare qualcuno. Ma è veramente tutto oro quello che luccica? E veramente tutto meraviglioso e perfetto per Fini? No, ben presto si evince che il bravo Gianfranco è alla guida di una corrente anzi di un correntone riformatore patentemente minoritario, e il poveraccio si destreggia funambolicamente tra "colpi di frusta e allegri stratagemmi" allo scopo di sottomettere l'ala biliosa e renitente del partito, quella destra sociale capitanata dal duo Storace-Alemanno, lo scirocco perturbatore tanto per intenderci.
Inevitabile che Fini si trovi davanti ad un aut aut amletico: proseguire lo slancio riformatore o cedere ai tradizionalisti?
Eppure a pensarci bene Fini è una personalità riflessiva, sul voto agli immigrati ha parlato in tono possibilistico citando un futuro poco prossimo, dove ha potuto urtare la suscettibilità dei conservatori? Gesti come i si al referendum e la formale abiura del fascismo, con il viaggio e la riconciliazione con il popolo ebraico, sono gia qualcosa di scandaloso agli occhi di un Tremaglia, pensare alle reazioni che accoglierebbero un'altra apertura al riformismo, che non è solo un problema interno della sinistra e che la destra sottolinea immancabilmente come se la sua transizione democratica fosse gia acquisita e sugellata dai fatti.
Come si regolerà Fini? Lascierà il partito per trasferirsi nell'UDC o in Forza Italia come preconizzato da Vittorio Feltri? Continuerà in seno ad AN rischiando la perdita di cospicue fette di elettorato? Fonderà un nuovo soggetto politico che recida recisamente i legami col post e neofascismo? Oppure spetterà il soccorso del tempo, soccorso che potrebbe personificarsi nelle sembianze del partito unico della casa delle libertà?
Il coraggio non gli manca di certo, non mancava neanche a chi, prima di lui, ha dovuto condurre la destra cattolica e franchista verso una sincera conversione democratica, José Maria Aznar.

Filippo Barbera

mercoledì 10 gennaio 2007

Le uova del drago Buttafuoco

Godibile il dizionario redatto da Pietrangelo Buttafuoco sugli uomini "illustri e meschini", ma siamo pur sempre sul versante Michele Serra "de destra".
Buttafuoco è un grande giornalista innanzitutto perchè rifiuta quello che è il diserbante per il talento di chi lavora per la carta stampata: il politically correct.
Cresciuto a pane e fascismo proletario, sociale, intelligente; siciliano arguto e mordace, ingegnoso, moderno e arcaico allo stesso tempo, galantuomo e mascalzone, qualunquista in fatto di morale forte e civista quando si tratta di lavare l'onta del disonore alla "pupa" Sicilia, onore nettato puntualmente e liberalisticamente coll'inchiostro e la provocazione di un conformista.
Quel gusto per il dialetto inserito a piccole dosi, sussurrato quasi tra le pieghe della divina lingua di Dante Alighieri e Alessandro Manzoni, al quale conferisce un tono rude, scanzonato e surreale.
Prezioso strumento di coscienza critica per la sinistra italiana (la quale li può comodamente enumerare sulle dita di una mano), curiosamente piazzato nelle trincee nemiche, banditore di nessuna parrocchia politica, di nessun'uomo della provvidenza, di nessuna maschera grottesca sull'esempio di Giordano Bruno Guerri, anarchico anticlericale a parole; esegeta inattendibile del duce a fatti, con l'inattendibilità connaturata a chi esalta e rivendica un passato che non gli appartiene, tale e quale all'emerita categoria degli spostati di casa nostra(Adornato, Guzzanti, Rossella) comunisti ieri, anticomunisti oggi.
Ci ricorda le contraddizioni dei - da sessant'anni a questa parte - sempre buoni, sempre coraggiosi, sempre intelligenti, sempre riflessivi, eternamente impegnati, mai violenti, sempre aggrediti, oltremodo sensibili intellettuali socialcomunisti.
La mafia culturale come la chiamava senza fronzoli Giuseppe Berto, l'intellocrazia di sinistra o di centro o di destra, mangiapretista o filoclericale, rigorosa o spregiudicata, engagé o disengagé, berlingueriani o craxiani.
Schiaffi morali riservati pure a certe degenerazioni televisive, a certi uomini nuovi del buonismo da sacrestia, di marxismo al lattemiele o di fascismo formato famiglia, di divulgatori a corto di spina dorsale, preti casual e idioti matricolati. Guardare a Buttafuoco con simpatia mi è imposibbile giacchè il suo vero mestiere non è il gazzettiere tutto di un pezzo fradicio di ideologia, colmo di preconcetti e rancori bestiali verso gli avversari che si distanziano volentieri dalle sue preferenze in cabina elettorale. Si capisce in un batter d'occhio se abbiamo a che fare con Pietrangelo Buttafuoco da Agira o con lo stinto pagliaccio di turno con la lingua pronta a lanciare stilettate venefiche, tipo Adolfo Urso o Domenico Nania. Uomo troppo colto per aderire in maniera del tutto incondizionata alle aberrazioni del padre padrone Berlusconi; innamorato dell'opera lirica e delle "femmine" al pari di un personaggio sgorgato dalla letteratura e dal teatro del grand siecle (o, per chi dovesse tenere altri gusti, del siglo de oro), lo prefiguriamo già seduto alla tavola di un ricco banchetto cantare ebbro "viva le femmine, viva il buon vino" come il don Giovanni di Mozart e Da Ponte. Sensuale e atipica razza di intellettuale: moralista uscito dalla fucina brancatiana; satiro sensuale formatosi attraverso la lettura della filosofia tedesca (laureato in filosofia). Immune dalla fregola di cimentarsi nelle arene dello scontro politico, in Sicilia fatto di prebende, colpi di lupara e dai frettolosi e frugali "rusta e mancia", versione colorita ma autoctona del rostbeaf anglosassone. L'agape democristiano tradizionale insomma, rituale dove si predetermina la spartizione dei posti e del potere ancora prima che le elezioni abbiano fatto da ancella al destino e al regolare corso democratico.
Parlo molto della trinacria e poco del nostro meritocratico e perciò almeno moralmente di sinistra, capace di dire parole forti in poetica difesa della propria terra, pragmatico e futurista, possibilista che addirittura spiegava scandalosamente la fenomenologia del fascismo, sfuggita ad augusti e austeri professoroni come Galante Garrone e Norberto Bobbio.
Il fascismo è stato un grande movimento di sinistra poichè il populismo idillico e tradizionalista, fortemente improntato all'ordine sociale, è l'elemento che lo accomuna al comunismo oltranzista proprio come il riformismo esangue e vagamente (e opportunisticamente) libertario lo distingue dal succitato massimalismo rossonero. Con buona pace di tutte le nobiltà, per usucapione, di sangue, d'arte, di toga o di quella più smaccatamente romantica: la nobiltà uterina.


Filippo Barbera

Lo spirito civico del Billionaire


Flavio Briatore ha il vanto di vivere nell'anonimato, e non scherzo mica.
La popolazione vippara che segue le sue fulminee avventure amorose, le scappatelle agostane, dell'agosto esteso generosamente tutti e dodici i mesi dell'anno (testimoniato dalla perenne abbronzatura stampata sulla faccia), stenta a capire quale sia l'occupazione di questo estroso anfitrione meneghino, anzi, non se lo chiede affatto.
Suscitando lo scandalo dei vippari, Flavio Briatore è o dovrebbe teoricamente essere geometra e manager della Renault. Ha trionfato in formula uno; è degno del titolo di cavaliere; cambia continuamente compagna ma sembra or non è molto essersi piegato al talamo; è testimone di iniziative di beneficienza per i bambini poveri, in occasione della quale raccoglie una ricca questua passando in rassegna dei numerosi amici che affollano il suo locale esclusivo sulla Costa smeralda, il Billionaire, mèta abituale di calciatori, veline e altri elementi dell'elite "senza potere" alberoniana. Non disdegna l'amicizia di uomini e donne invischiate nella politica, come Daniela Santanchè, quella che mostra il ditalino agli studenti, sicura di avere a che fare con gente fin troppo smaliziata, astro maggiore nel cosmo della nuova destra femminile e mondana, che richiama alla mente la femme fatale d'annunziana, la Elena Muti del "Piacere". Ma forse D'Annunzio avrebbe genuinamente vomitato dinanzi a questi nuovi tipi umani forgiati dal fuoco del tubo catodico e plasmati dagli ultimi vent'anni di milaneseria da bere e satira vanziniana, escluso l'infortunio passeggero di Mani pulite.
Col cambio di regime, l'espressione non è mia, appartiene ai tempi tesi in cui viviamo, il nuovo esecutivo stanco di bistrattare le categorie fedeli alla destra, decide di tassare il lusso, per impinguare le anemiche casse dello stato.
Il lusso, sterile sogno dell'italiano d'ogni tempo, rifugio dell'eroe eccezionale d'annunziano (troppo inerente con l'argomento che è ineseguibile non citarlo una seconda volta) dal presente frustrante, privilegio idiota che depaupera la nazione "rendendola schiava del nemico" parafrasando le adulatorie parole dell'austero duce del fascismo Benito Mussolini.
Il lusso e la magnificienza che resero splendido e appetibile lo stivale e magnifici i Medici di Firenze, scatenando la corsa alla dolce Italia ricca di tesori materiali e artistici e riducendola dopo tre secoli a una fredda aspressione geografica, a qualcosa di scombinato e deprimente, niente di più lontano dal concetto moderno di nazione.
"Il lusso è utile", nuova massima coniata nella profonda Italia dell'imbecillità. Le pari opportunità omologano, il lusso invece sviscera e valorizza le diversità e le vocazioni della nostra bella Italia. L'esclusivo, il raro, il prezioso che ti faccia emergere, ti discerna dall'opprimente dittatura del numero, dall'appiattimento democratico. Il potere e l'oppressione derivanti dalle disparità economiche sono una forma di intolleranza intollerabile, al pari di quella razziale. Al Billionaire si darà una vivace protesta nei confronti dell'indirizzo fiscale intrapreso dal governo Sardo di centrosinistra per salvare le venuste spiagge dell'isola. Una sceneggiata grottesca impensabile anche per Bunuel, insuperato sbeffeggiatore dei tic e delle belle pensate borghesi; si respirerà qualcosa di esilarante e al contempo pericoloso, malato, inquietante nell'allegria che animerà sicuramente la soirèe. Mi riesce difficile e penoso immaginare l'apprensione di riccastri riluttanti a sborsare qualche centinaio di euri in sovrappiù e, neanche lo nascondo, suscita rabbia l'ascesa in campo, dalla sommità della torre d'avorio, di persone che ignorano il costo della vita, il classico prezzo del pane e che danno le mosse a un odioso picchetto - party millantando la difesa del turismo locale e italiano. Turismo che vedrà l'occaso, dopo una simile imposta sul lusso, pensano tutti loro e la destra banditesca, mentre aumenta a vista d'occhio (e impietosamente) il numero degli stranieri che quest'estate ha deciso di soggiornare nelle nostre incantevoli località turistiche.

Filippo Barbera

Un Rotondi sul mare



Gianfranco Rotondi è l'insipido erede della cultura democristiana verace e sfacciata, nel senso che rivendica una pagina di storia patria di cui possiamo essere poco orgogliosi. Una faccia da morto di sonno che dopo dieci minuti che la guardi cominci a dubitare della tua sicurezza e inizi a preoccuparti seriamente: ti capaciti di avere a che fare con una razza che puo contare nel suo libro famiglia personaggi cristianamente spregiudicati, secondo cui il POTERE logora chi non ce l'ha, cioè che il potere va coltivato e difeso e non respinto o peggio condannato come immorale. Una classe politica cresciuta all'ombra delle vesti clericali, in una prestigiosa e insuperabile scuola di amoralità immorale, valente somministratrice di piccole dosi di veleno, di piccole bastonate e minuscole efferatezze, ponderatamente, col misurino, tanto quanto basta per non cadere nell'abiezione. Lui è riuscito benissimo, pacato e figlio di puttana - accezione americana -, falso e bleso, pallido e perfidamente intollerante. Sbaglia chi confonde cio con la cecaggine idiota di certi berluscones; sbaglia pure chi travisi la corazza astiosa con la passionalità relativamente corretta di un Pierferdinando Casini.
L'italiano ha fallito nell'impresa di fornirsi di un anticorpo contro la DC, tumore maligno fisiologicamente parlando, figura castrante psicoanaliticamente considerando. Bene o male? La democrazia cristiana è tacciabile di molti errori e disastri ma certamente è stata l'editore di riferimento di molti più cittadini oltre che dell'inestimabile Bruno Vespa. Si contano a centinaia di migliaia coloro che hanno beneficiato di mezzo secolo di regime dello scudo crociato, hanno riscosso onori, intascato prebende, alimentato la corruzione e la connivenza e l'appoggio incondizionato alla criminalità mafiosa, hanno potenziato la tradizionale grettezza dell'italiano medio, stuzzicandone vizi privati e pubbliche virtù. La tecnica di governo si è risolta in una silenziosa manovra di imbrigliamento del cursus democratico. Di un regime d'eccezione dettato dalla necessità e dagli scherzi della geopolitica, disegnatasi durante la guerra fredda, hanno fatto la procedura abituale, svilendo le buone cose della democrazia partecipativa e limitando il pluralismo e la dialettica all'eterno dualismo DC vs PCI, di cui la popolazione incomincia ad averne abbastanza, percependo il logorio fisico di una disputa manichea irresoluta e infinita. L'inconsistenza delle proposte, la mediocrità dell'establishment partitico, la provvisorietà dei programmi, il carattere effimero di etichette e nomi, l'assenza di radicamento nella società e l'intercambiabilità con questa.
Un partito oggi in Italia sbaglia due volte. Primo perchè si rifà allo schema delle contrapposizioni apocalittiche degli anni 50. Secondo perchè finisce con l'essere inferiore agli avi che si propone ottusamente di eternare, in preda a uno stolto gioco di trasmigrazioni e operazioni di maquillage. Tutto inutile: il partito si consuma come una candela senza pervenire ad una identita propria e originale, a divenire qualcosa di più profondo della semplice entità metafisica, a esporre valori sinceri e in sincronia coi tempi. Se poi inseriamo in tutto questo il profeta di Arcore che ci mette in guardia da Stalin ...
La guerra fredda è finita nel 1989 con la caduta del muro, qua in Italia non ancora, anche se da grandi buontemponi festeggiamo ugualmente l'evento, in un turbine di sciocche contraddizioni. Pazienza, vivivamo in un'altra dimensione temporale, siamo un'universo parallelo.

Filippo Barbera

Daniele Luttazzi signore della satira


A Daniele Luttazzi nessuno contesta che il suo autoproclamarsi antipapa dei comici resistenti, quelli di trincea che giammai vedreste a Mediaset, sia coerente e legittimo. Anzi di più. Luttazzi, col suo puritanesimo intransigente rappresenta un fenomeno anomalo e poetico, commovente e crepuscolare ma anche un segno di consapevolezza dell’impotenza, oggi, di chi è costretto a fare satira ai limiti della legalità.
Braccato, sfrattato al pari dei una malattia contagiosa, obbligato a esibirsi nei più oscuri anfratti del mondo dello spettacolo, continuamente pressato da esigenze economiche e dalla tremebonda condotta di manager e showman di cuore e fegato davvero piccolo.
Daniele simpatico a tutti non lo è mai stato e, testardo, non lo sarà mai.
La sua è una protesta terribile, solitaria e biliosa e appassionata indirizzata verso quella comicità “per tutta la famiglia” troppo comoda, fatta di sfottò e birignao e coloriti bozzetti, incoraggiata sistematicamente da potenti e sottopotenti come Fedele Confalonieri con il chiaro intento di dimostrare la “libertà concessa“ regnante a Mediaset, la bonomia di chi amministra parsimonioso la libertà d’espressione impedendo che questa nasca si sviluppi viva autonomamente e con la massima naturalità.
La libertà per la satira, e forse per qualsiasi altra cosa, non può non essere ricondotta a un fatto biologico, naturale, impossibile da controllare e da condurre dentro limiti e schemi banalizzanti.
Per questo motivo Luttazzi rimane inviso a tanti mezzibusti, a tanti Leporello del potere che, in barba ai gusti e alla volontà popolare ma anche alla faccia della (ripeto) spontanea libertà d’espressione, vorrebbero decidere e l’hanno deciso (e probabilmente continueranno impuniti a farlo) cosa sia giusto mandare in onda, quale sia la buona comicità e la risata sana e genuina. Loro propugnano che sia quella dell’imitazione iperrealista e innocua di Fiorello o quella scatologica della Littizzetto (quella si coprolalica, Petruccioli marinista dei nostri tempi e sessantottino dei miei stivali). O ancora i “cavalieri mascarati” di Ricci, gli sdoppiamenti di personalità del funambolo Bonolis - Sordi - Totò, l’estremista Mammuccari con i suoi stucchevoli format per bambinoni, gabellati ogni volta per una sconvolgente tempesta, con scariche ad alto voltaggio di cinismo antibuonista che francamente nessuno ha visto. Nient’altro che pessima cucina televisiva di cui dopo un quarto d’ora hai già digerito ed espulso le feci, senza che abbia sfiorato minimamente il tuo think tank, la tua coscienza critica ridotta a tabula rasa da reality sboccati e TG taroccati.
Daniele invece parla imperscrutabilmente di filosofia e identità culturale occidentale: l’epistemologia e il genio euristico in Celentano; cita la coprofagia del Salò di Pasolini; esalta Rabelais e invoca il carnevale cristianopagano di bachtiana memoria, incaricato di purificare l’animo umano saturo di rancori mandando la società a carte quarantotto per un effimero giorno all’anno.
Mi tocca concludere elevandolo a dismisura, facendogli assumere immani proporzioni titaniche: per Daniele Luttazzi gli studi televisivi italiani sono troppo angusti, i giornalisti tipo Guia Soncini troppo meschini e il CDA della RAI alquanto lillipuziano. La sua maestà rischierebbe di schiacciare codesto esercito di ridicoli folletti.


Filippo Barbera

Nietzsche: Il crepuscolo della ragione



Ineguagliabile il saggio di Adriano Romualdi sul nucleo del pensiero di Friedrich Nietschze, sul Nietschze punto e basta, senza distinguo pusillanimi e piccinerie compromissorie. Il filosofo sassone è protonazista, questo è quanto e che non se ne parli più.
Il filosofo stedeschizzato era l'unico genio incontrastato e incompreso del secolo XIX, sulla cui augusta figura si sono dilettati in diversi a gettare fango, comunisti, liberali, plutocratici, anime prave, critici e studiosi al soldo dell'internazionale, capibanda del comunismo europeo (Lukacs, Gramsci, Hollingdale ecc.).
LUI era il solo capace di avvertire l'ondata di nichilismo che stava per travolgere il rammollito vecchio continente piegatosi al suffragio universale, alla decadenza anglosassone, all'umanitarismo cristiano e socialdemoratico, pietoso nei riguardi di una umanità di zeri e di parassiti, obliosa verso il glorioso passato pagano greco, barbaro e romano barbarico. Nietschze amava dafinirsi un "barbaro ebbro sognante ai piedi della statua di Venere".
Nietschze è insomma per Romualdi una reliquia dotata di una certa dignità (anche troppa), uno zio d'America che non sfruttare sarebbe sciocco, lasciarlo alle balzane e criminose interpretazioni dei valletti del marxismo, con il "mondano" Sartre in testa, sarebbe pretta balordaggine. Un grande poeta, uno squisito filosofo maestro per antonomasia delle anime alte, solitarie, sensibili, potrebbe tracciare la strada alla destra italiana dei primi anni sessanta, impelagata fra legalitarismo e illegalitarismo, lungo una direttrice altra dal dogma egualitario del 1789, del "diluvio democratico" come lo chiamava D'Annunzio. Un progetto ambizioso che cela, tutt'altro che abilmente, dove inizia la politica e dove finisce la propaganda, dove si scorge la restaurazione e dove si intravvede la rivoluzione, conservatrice naturalmente. Quanto ai mezzi, al tempo, al luogo, ai contatti e ai legami da suggellare per oggettivare il piano astratto e piantato saldamente nel cumulo cartaceo dei saggi sui filosofi destrorsi, non è dato sapere. La chiesa resta fuori, è ovvio; Romualdi la sviolineggia da ventriloquo, usando gli aforismi e le escandescenze in tedesco di Nietschze.
Pare rivolgersi, come appuntava il Filosofo nel sottotitolo del Zarathustra, a tutti e a nessuno. Forse alle classi tradizionalmente toccate da questi argomenti delicati: le forze armate, i rimasugli di aristocrazia collassata e rimbambita dagli agi e dagli stravizi, che non conosce più un'erezione come si deve dal XV secolo.
Ma Nietschze dice: "l'umanità di cui io parlo non è ancora nata" anche se benedice l'opra di san Bismarck, si arruola e si incazza belluinamente quando il Kaiser decide di accontentarsi dell'Alsazia e della Lorena, che non sono due contadinotte appetitose.
E abbandona tutti gli amici imborghesiti, accademizzati, burocritizzati Wagner e Burckhardt. Preferisce la compagnia di ebrei come il filosofo Paul Rée e l'acerba Lou Andreas-Salomé, poichè Romualdi tende a ribadire <<>>. Salvo poi tirare in ballo i libelli cinematografici degli ebrei di Hollywood contro i signori della Germania nazista. Nel pensiero di Romualdi, più che in quello di Nietschze, sembra regnare la confusione totale e assoluta.
Neanche una riga sul fatto che Marx e Nietschze siano in ultima analisi le sconvolgenti due facce della stessa medaglia.
I filosofi della perpetua lotta di classe o meglio tra classi, portata avanti con teutonica franchezza, sfrondata dagli imperativi utilitari.
L'uomo di Rocken battagliava per il ritorno all'ideale estetico ed etico incontaminato romano-barbarico, sconsacrato da una religione debole e rinunciataria che seppelliva il meglio dell'essere umano, il lato animale e divino, l'arbitrio e la sregolatezza procreatrice di eroi. L'uomo di Treviri sottolineava con la lente del razionalista, dell'economista, il tramonto delle aristocrazie in seguito a complessi stravolgimenti tecnologici e sociologici (senza menzionare il carattere spregevole ed egoista della casta); la scalata superba delle borghesie e il prossimo sopravvento del proletariato. Una panoramica pulita e oggettiva, credibile e priva della stizza arrogante che assale il sopravvissuto, il retrò quando si accorge che il mondo non và nel modo e nella direzione da lui prevista e agognata.
"Gli schiavi un giorno vivranno da borghesi ma avranno chiaro il senso della superiorità della classe dominante", frase che lascia presagire come Nietschze non avversasse il benessere per il popolo, ma la pretesa di democrazia, ove per democrazia si intenda partecipazione attiva della maggioranza nelle decisioni che attengono la nazione e il bene comune. Perchè parlare dunque di schiavi e di padroni, di patrizi dediti all'ozio e di plebei alla fatica?
Il Filosofo sperava anche che un giorno l'incombenza ai lavori pesanti, disumani appunto, venisse demandata a quanti non potessero propriamente definirsi umani, ai poveri cristi. Vogliamo chiamarli con presunzione progressista robot, macchine, mettendo nel conto l'idiosincrasia di Nietschze per la scienza e il progresso?
Per quanto concerne il discorso della reggenza, l'elite è qualcosa che possiamo riscontrare apertamente anche presso i popoli e i governi maggiormente evoluti, libertari, democratici. Libertà e pari opportunità non si traducono istantaneamente in paludismo, mediocrità e mancanza di stimoli, anzi li creano.
Venendo alla promiscuità fra razze, sotto il profilo di pregiudizio culturale e discusso e discutibile, sotto il punto di vista scientifico è stato smascherato della sua infondatezza. Il meticciato e documentato come una risorsa aggiunta all'arricchimento del patrimonio genetico e culturale dell'uomo. L'eugenetica, il monorazzismo sono la scaturigine di malattie, rendono decrepita la razza che si isola, la indeboliscono.
E come la classica prigione d'ovatta, la campana di vetro che genera smidollati infrolliti, non valorosi Sigfridi. Checchè ne dicano pseudoscienziati in sedia a rotelle, tipo Julius Evola o l'entusiasta leguleio nietschziano Romualdi, con il loro tedioso e delirante superuomo. La scienza è roba diversa dalla loro Città del sole nazista e antioperaia.

Filippo Barbera