mercoledì 10 gennaio 2007

Daniele Luttazzi signore della satira


A Daniele Luttazzi nessuno contesta che il suo autoproclamarsi antipapa dei comici resistenti, quelli di trincea che giammai vedreste a Mediaset, sia coerente e legittimo. Anzi di più. Luttazzi, col suo puritanesimo intransigente rappresenta un fenomeno anomalo e poetico, commovente e crepuscolare ma anche un segno di consapevolezza dell’impotenza, oggi, di chi è costretto a fare satira ai limiti della legalità.
Braccato, sfrattato al pari dei una malattia contagiosa, obbligato a esibirsi nei più oscuri anfratti del mondo dello spettacolo, continuamente pressato da esigenze economiche e dalla tremebonda condotta di manager e showman di cuore e fegato davvero piccolo.
Daniele simpatico a tutti non lo è mai stato e, testardo, non lo sarà mai.
La sua è una protesta terribile, solitaria e biliosa e appassionata indirizzata verso quella comicità “per tutta la famiglia” troppo comoda, fatta di sfottò e birignao e coloriti bozzetti, incoraggiata sistematicamente da potenti e sottopotenti come Fedele Confalonieri con il chiaro intento di dimostrare la “libertà concessa“ regnante a Mediaset, la bonomia di chi amministra parsimonioso la libertà d’espressione impedendo che questa nasca si sviluppi viva autonomamente e con la massima naturalità.
La libertà per la satira, e forse per qualsiasi altra cosa, non può non essere ricondotta a un fatto biologico, naturale, impossibile da controllare e da condurre dentro limiti e schemi banalizzanti.
Per questo motivo Luttazzi rimane inviso a tanti mezzibusti, a tanti Leporello del potere che, in barba ai gusti e alla volontà popolare ma anche alla faccia della (ripeto) spontanea libertà d’espressione, vorrebbero decidere e l’hanno deciso (e probabilmente continueranno impuniti a farlo) cosa sia giusto mandare in onda, quale sia la buona comicità e la risata sana e genuina. Loro propugnano che sia quella dell’imitazione iperrealista e innocua di Fiorello o quella scatologica della Littizzetto (quella si coprolalica, Petruccioli marinista dei nostri tempi e sessantottino dei miei stivali). O ancora i “cavalieri mascarati” di Ricci, gli sdoppiamenti di personalità del funambolo Bonolis - Sordi - Totò, l’estremista Mammuccari con i suoi stucchevoli format per bambinoni, gabellati ogni volta per una sconvolgente tempesta, con scariche ad alto voltaggio di cinismo antibuonista che francamente nessuno ha visto. Nient’altro che pessima cucina televisiva di cui dopo un quarto d’ora hai già digerito ed espulso le feci, senza che abbia sfiorato minimamente il tuo think tank, la tua coscienza critica ridotta a tabula rasa da reality sboccati e TG taroccati.
Daniele invece parla imperscrutabilmente di filosofia e identità culturale occidentale: l’epistemologia e il genio euristico in Celentano; cita la coprofagia del Salò di Pasolini; esalta Rabelais e invoca il carnevale cristianopagano di bachtiana memoria, incaricato di purificare l’animo umano saturo di rancori mandando la società a carte quarantotto per un effimero giorno all’anno.
Mi tocca concludere elevandolo a dismisura, facendogli assumere immani proporzioni titaniche: per Daniele Luttazzi gli studi televisivi italiani sono troppo angusti, i giornalisti tipo Guia Soncini troppo meschini e il CDA della RAI alquanto lillipuziano. La sua maestà rischierebbe di schiacciare codesto esercito di ridicoli folletti.


Filippo Barbera

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